Di film strani ne ho visti tanti e ne ho fatto uno, corto e storto, con una sputazza finta di sangue in terra—ma quello che ad oggi resta delle allucinazioni di Yorgos Lanthimos la più iconica, li mette tutti in ginocchio. Tutti tranne il mio, naturalmente, che seduto stava e tale resta.
Mi fermo un attimo dopo averlo visto. Vorrei scrivere una nota a caldo. Cerco una via di lettura, una porta anche piccola come quella di Alice perché Dogtooth, che a suo deviato modo è senz’altro un paese delle meraviglie, lascia come tutti i lavori di Lanthimos—con il desiderio di trovare quella minuscola via d’accesso. Ed è così, smarrito e confuso da sentimenti inconciliabili—curiosità, sconcerto, entusiasmo, frustrazione—che mi ritrovo muto e immobile davanti al bianco brillante della pagina vuota.
Le dita sfiorano la tastiera sperando che sia lei a suggerirmi qualcosa—a volte funziona. Senza accorgermene, mi ritrovo ad aver scritto la parola sperimentale. Suggerimento sbagliato, mai fidarsi delle macchine—la cancello immediatamente vergognandomi di averla in qualche modo pensata. Mi guardo con la coda dell’occhio nello specchio. Poco dopo, surreale compare sulla schermo. Mi convince di più, o forse no—è così generico. Così la cancello, ma lentamente, retrocedendo lettera per lettera, pensando che in fondo qualcosa di surreale in Dogtooth c’è. Respiro profondamente, a questo punto un po’ scocciato perché i miei minuti stanno scadendo e le palpebre si sono fatte pensanti. Poi finalmente mi convinco di aver formulato un’idea compiuta. Qualcosa del genere—Dogtooth corteggia il platonico mito della caverna per puntare il dito sull’educazione e sollevare dubbi sul delicato ruolo dei genitori. Crescere una figliata ha smesso di essere un compito naturale nel momento in cui il secolo ha cominciato a caricarci di pressioni, esponendo sempre di più l’individuo alla collettività, alle sue meschinità, alla sua insoddisfabile sete di manipolazione, forzandolo infine a un confronto aberrante e malato. Il figlio dell’uomo si fa forte e colto, ma disimpara ad accostare i colori ed è sempre più indifeso. Ed è forse questa la critica più caustica che Lanthimos scocca scrivendo personaggi di nuovo al limite tra il comico e l’inquietante, ma questa volta sorprendentemente empatici.
Ora ho decisamente sonno, ma non posso fare a meno di chiedermi un’ultima cosa—se Lanthimos si renda conto delle espressioni che riesce a stampare sul volto del suo pubblico. Complice l’ora, la mia è quella di un piccolo fiore giallo—immagino non gli dispiacerebbe saperlo.
Di certo non rileggo. Spengo la luce, ma non chiudo gli occhi.