NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.
Cape Fear
Cape Fear era uno dei pochi film di Martin Scorsese che non avevo mai visto. L’avevo sempre evitato pensando che fosse quello che, almeno in superficie, ho avuto conferma essere—uno di quei thriller americani degli anni Novanta in cui il buono e il cattivo (ma non il brutto, condannato piuttosto dalla natura caduca del suo ruolo drammatico, e dalla sua stessa bruttezza, a una scomparsa precoce non compianta) si confrontano in una scena finale artificiosa, bizzarra, lunghissima, in cui il cattivo sembra morire innumerevoli volte prima di perire definitivamente con meritata sofferenza, ricostituendo così (chiedo scusa per la lunghezza della frase, ci sono quasi) l’indispensabile ordine morale che si era perduto. Ma è proprio vestendosi di questa pacifica conformità che Cape Fear insinua una sottile, acuta provocazione alle formule del genere cui fa omaggio e a quelle del decennio da cui proviene. Con un film che pare una personale deviazione artistica, Scorse racconta nuove sfumature sul tema a lui familiare del giudizio e della sentenza—quella che alimenta il conflitto nella storia e quella soprattutto che il pubblico è diabolicamente tentato a emettere nei confronti di ciascun personaggio.
Culminando con disarmante genio in una toccante glossolalia biblica, Cape Fear scuote la cupida inclinazione umana al processo sommario e la comune arroganza di ritenerlo un diritto—e interroga chi avesse la sensibilità di non nascondersi sul senso di giustizia occidentale che buona parte del cinema ancora abbraccia e contribuisce a promuovere. Sono davvero colpevoli quelli che infine muoiono? Sono davvero giusti quelli che sopravvivono?