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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

È stata la mano di Dio

Cammino lungo Curzon Street ingobbito da un novembre che morde come l’inverno. Che bella Mayfair illuminata dalle luci gialle delle lunghe notti urbane. Che bella Londra riflessa sull’asfalto bagnata di una pioggia caduta da nuvole in fuga. Arrivo ed entro, un bicchiere di vodka al bar, poi dritti in sala dove avvistiamo due posti centrali ancora liberi. Quando ci rendiamo conto che per raggiungerli stiamo scomodando la coppia più anziana in platea, i due sono già cortesemente impegnati nella laboriosa operazione. Ulteriormente impicciati da giacche, sciarpe, cappelli e bicchieri—i loro, di vino rosé—ci aprono finalmente uno stretto passaggio nel quale ci infiliamo tra mille riverenze e l’imbarazzo celato dalle insopportabili mascherine chirurgiche. Una vignetta, in effetti, puntualmente sorrentiniana.
Poco più tardi Paolo è sul palco arruffato come sempre, non tanto più grigio dell’ultima volta che l’avevo visto. ‘È come quando devi andare dal dentista,’ dice col suo mezzo sorriso malinconico e sornione. ‘Continui a rimandare finché arriva il giorno che ci devi andare per forza. Ecco,’ indicando stancamente lo schermo alle sue spalle, ‘questo è il lavoro del dentista.’
Lo spettacolo comincia in volo. Sotto di noi un mare rigato da motoscafi off-shore come gazzelle in una savana blu. Niente di straordinario, tutto sommato, finché lo sguardo si alza su Castel dell’Ovo, poi Chiaia, Posillipo e oltre. Una Rolls d’epoca percorre il lungomare splendente. La seguiamo a distanza fino alle magiche stanze di una vestale a scoprire i ricordi più belli e penosi.
Scritto quattro anni fa per i suoi figli con l’intenzione di non farne mai un film—nelle sue parole, perché leggendolo magari capissero ‘come mai loro padre sia tanto strano’—È stata la mano di Dio è un film spaccato in due come la città in cui vive. La prima parte è ovattata da un’estate infinita in cui si mangia mozzarella, si picchiano le zie in pelliccia e si fanno fantasie erotiche su quelle senza. Dove la preoccupazione più grande è che Diego venga comprato oppure no dal Napoli. Poi il tragico evento e tutto cambia. Lo scompiglio che porta nella vita di Fabio è lo stesso narrativo che dà al film un nuovo passo. Una serie di stralci e personaggi di passaggio si sovrappongono avidi di futuro in una sequenza di montaggio che con più fretta di quanta storia riesca a raccontare ci porta a quel fatidico treno per Roma. Di nuovo in volo.
Nonostante le sue recenti serie papesche avessero tutti i caratteri di quello stile tra il barocco, il grottesco e il faceto che aveva trovato la sua forma più matura ne La grande bellezza, è grazie alle limitazioni di quell’esperienza—racconta ancora Paolo a fine proiezione—che ha imparato a girare con le soluzioni più semplici che fanno del suo ultimo un lavoro così diverso dei precedenti. Mi chiedo se abbia pensato a quanto Martin Scorsese in più di un’occasione ha detto, che nel dubbio su come girare una scena riflette su come Bresson l’avrebbe fatta. Mi chiedo anche se sia stata un’esigenza dettata dalla natura autobiografica del film, dal desiderio di raccontarsi senza il filtro di ricami stilistici. Mi chiedo infine se sia Napoli, su qualsiasi palco ingombrante, su cui Paolo non sappia o non voglia mentire.
Divertente e doloroso, È stata la mano di Dio è un film imperfetto che comunque vince. E lo fa nello stesso modo in cui il suo autore si espone, con il candido coraggio della vulnerabilità.

 
—acpaolo sorrentino, 2021