Foxtrot sono tre film per tre protagonisti. Girati in luoghi diversi, si distinguono nella fotografia, nei colori, nei suoni—e nella regia. Da una parte elegante, ostentatamente virtuosa, minuziosamente meditata nei movimenti e nella continua ricerca di angoscianti simbolismi. Dall’altra onirica, pittorica, prevalentemente bidimensionale. E infine essenziale, elementare, ma soprattutto intima e discreta. Un occhio che scava cinico e crudele, uno che vede guerra, corruzione e meschinità umana con indulgenza, ironia, e lo stesso sguardo fiabesco di chi osserva, e uno dolce, privato, familiare.
Nelle parole dell’autore, la prima sequenza intende scioccare, la seconda ipnotizzare, la terza commuovere. Shock and shake, hypnotise and move. La sfida è vinta. Vinti sono i protagonisti, il cui fato è tragicamente scritto dagli eventi più banali—un nome scambiato, una lattina vuota, un cammello per strada—e vinti è quello che ci si sente durante il nero dei titoli di coda.
C’è però un aspetto di Foxtrot che mi lascia vagamente perplesso, se non proprio insoddisfatto. La trama è fin troppo perfetta. Tutto sembra trovare convenientemente il suo posto. La bravura di Samuel Maoz sia dietro la macchina da presa, che quella da scrivere, sembra farsi distrarre da un’attenzione ossessiva per il dettaglio, lasciando che la storia perda progressivamente consistenza.
Forse è una mia personale difficoltà con i cerchi che si chiudono. Forse devo questo limite alla mia incapacità a chiuderli. Poco importa. Avevo bisogno di vedere questo film. E la menzogna che mi abbia fatto bene, è già sulla bocca di tutti. Non resisto. Un’ultima nota prima di tacere. Per me il finale doveva essere ripreso completamente dalla camera sul mezzo militare. Oltre a essere inutilmente descrittivo, il campo lungo sdrammatizza e ridicolizza. Ma non escludo che anche questo sia parte dell’ironia di Maoz.