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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

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The Other Side of Hope

‘You might be wise, but I’m older. Let me make a call.’ Malinconico, nostalgico, faceto, al limite del grottesco, evocativamente soviet. The Other Side of Hope (Toivon tuolla puolen) sfugge agli aggettivi, brilla sopra le convenzioni. L’umorismo ironico e paradossale di Aki Kaurismäki mi è in qualche modo familiare. Le ombre realiste e i bagliori fiabeschi con cui fotografa temi drammatici come guerra, immigrazione, razzismo e musica country sono singolarmente sinergici e contagiosi.
Alle prime battute il pubblico si accigliò interrogativo. Poi si chiese se altro non fosse che una finnica, sgargiante presa per il culo, ma prima di convincersene l’effetto esilarante era entrato in circolo. La gente uscì dalla sala con un sorriso ebete, una serenità insensata, e qualche sasso in più nelle tasche.

 
—acAki Kaurismäki, 2017
Napoli velata

Napoli è Napoli, e Napoli non basta. L’ode partenopea di Ferzan Özpetek è un incontro di stupende intuizioni con ambizioni più elevate di quanto riescano a volare. Il velo che chiude, in apertura, il parto del femminiello, quello di marmo e aria sul Cristo di Giuseppe Sanmartino, quello che protegge i personaggi, i loro segreti, i misteri di una città dove antico, contemporaneo, cronaca e leggende non smetteranno mai di condividere i vicoli, il vento e il mare. Ma è anche il velo di una mancata lucidità artistica che fa sembrare Napoli velata il lungo episodio di una serie televisiva lasciando al pubblico di immaginarsi il film che poteva essere e non c’è, o non si vede.

 
—acFerzan Özpetek, 2017
Un beau soleil intérieur

Non ero riuscito a vederlo quando era in sala. Non mi ero impegnato molto. Nonostante la firma di Claire Denis, mi ero lasciato stupidamente scoraggiare dalla locandina—triste, trascurata, anzi inguardabile. Perchè le locandine sono importanti, lo sono per me, lo sono quanto le copertine di un libro o di un disco. E sono di solito una delle poche informazioni che ho su un film prima di vederlo. Spesso l’unica.
Normale e indispensabile, tanto diretto quanto complesso, Un beau soleil intérieur è la contraddizione della forma e della contraddizione un dipinto. Dramma e commedia non convivono semplicemente come in ogni vicenda umana—animano le stesse battute, le stesse parole, e questi dialoghi lunghi, a tratti incoerenti, frammentati, eppure musicali quanto arie di un’opera.
La camera guarda giù su una grossa tela bianca fissata al legno più bello, quello sporco di colore nello studio di un artista. Pentola e pennello, Isabelle vi cammina scalza cominciando a segnarla. Gesti puliti e minuziose sfumature disegnano tracce grasse, imperfette, vive. La sua cornice è la nostra. Ci chiediamo se siano segni casuali, istintivi, se comporranno un soggetto discernibile, se rimarranno astratti per sempre—se la loro ragione sia proprio l’essere dove prima non c’era nulla.

 
—acClaire Denis, 2017
Zama

In piedi sulla sabbia, meravigliosamente di profilo a contemplare il mare piatto, assorto nella lenta e remissiva presa di coscienza dei propri limiti di burocrate, uomo, padre, puttaniere—e dell’assurdità della tronfia cultura che rappresenta per necessità e mestiere, nello sconcerto più irreversibile. Don Diego de Zama. Il vigoroso corregidor, il giudice retto e risoluto. Colui che ha portato la pace tra gli Indiani e fatto giustizia senza sguainare la spada. Ma anche l’uomo disperato, perso e lontano, consumato dall’atroce solitudine di un dio nato vecchio che non può morire.
Lucrecia Martel esplora ancora una volta l’intimità di una creatura alienata, il suo dialogo spezzato con un mondo cui appartiene, ma che non è più suo—e lo fa con una sensibilità non comune, lasciandoci uno dei più bei film di questo tempo.

 
—acLucrecia Martel, 2017
God’s Own Country

C’è più movimento nell’immobilità che nella frenesia. God’s Own Country tratteggia l’irrequietezza elettrica di un mondo perso nel tempo con passione e sensibilità impressionistica, facendo lentamente sbocciare un inizio quasi documentaristico in una magica pastorale e provocando empatia dove meno ci saremmo aspettati di provarla. Forse il finale ha le ali tarpate da soluzioni trite e una descrittività narrativa non necessaria, ma a quel punto il film ci ha già vinti. Ed è tardi per cambiare idea.

 
—acFrancis Lee, 2017