NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.
Amadeus
Parlando di nidi e cuculi con un amante di Čechov, irlandese ateo, mi sono reso conto di aver trascorso la mia infinita infanzia di fronte a un televisore sul quale girava senza interruzione Amadeus di Miloš Forman. Avendolo riguardato di recente dopo una lunga pausa, penso che nel suo genere, concessagli qualche veniale smanceria drammaturgica tipica del cinema di quegli anni, sia ancora un film formidabile.
Nel riscrivere per lo schermo, Peter Shaffer mette mano al proprio lavoro con risoluta maestria da macellaio riuscendo non solo a proteggere l’autenticità dei temi—l’apollineo e il dionisiaco, la passione e la disciplina, il tormento e l’estasi, e poi l’invidia—ma a dar loro forza con dialoghi ancora più taglienti e scene pervase del più indomabile romanticismo.
Sotto un cielo lugubre che piange la morte, tre sconosciuti infreddoliti alzano il bavero e si incamminano gobbi sulla terra bagnata. Tra le croci di ferro e le tragiche piante di fine autunno è arrivato il carro. Sono i becchini. Per loro, è la mattina qualunque di un cristo morto come tanti.