Per quanto il pettegolezzo sia sempre più interessante dei fatti, se Mank merita una qualche attenzione, non è per avervi prestato orecchio, ma per aver riflettuto sulle origini meno note del materiale che ha alimentato contenuto e intenzioni di uno dei capolavori più discussi del cinema americano. Citizen Kane.
La Hollywood della sua epoca più gloriosa è secondo l’intrigante intuizione di Fincher un luogo incompiuto popolato da individui malati che non vanno fieri di quello che fanno, detestano il proprio lavoro, le amicizie che frequentano, e infine se stessi. Ma è anche un teatro vuoto in cui echeggiano dialoghi virtuosamente orchestrati, tanto preoccupati a ritrarre il contesto storico, sociale, politico da ignorare l’intimità dei personaggi e negar loro la possibilità di diventare tali. Un produttore spietato, uno sceneggiatore disilluso, un ubriacone da pantomima, un genio ribelle e arrogante, e una bionda svampita che si rivela essere la persona più sensata, l’anima più pura, ma che da sola non riesce a salvare Mank dall'essere poco più di un carosello di grossolane caricature senz’anima, narrativamente vergini e insoddisfacenti.
Quanto agli aspetti più strettamente cinematografici, se la bravura di David Fincher non è manifesta quanto in altri suoi lavori restando tuttavia inopinabile, è la fotografia a essere tra tutte la cosa più indigesta. Un bianco e nero digitale stilisticamente incostante, che oscillando senza tregua e senza meta tra un’impacciata imitazione dei classici e il monocromatico procedurale di un vecchio iPhone fa sentire più che mai la mancanza della pellicola, del buon gusto, e del mestiere. Ah, quasi dimenticavo—vincerà senz’altro l’Oscar di categoria.