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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

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Mank

Per quanto il pettegolezzo sia sempre più interessante dei fatti, se Mank merita una qualche attenzione, non è per avervi prestato orecchio, ma per aver riflettuto sulle origini meno note del materiale che ha alimentato contenuto e intenzioni di uno dei capolavori più discussi del cinema americano. Citizen Kane.
La Hollywood della sua epoca più gloriosa è secondo l’intrigante intuizione di Fincher un luogo incompiuto popolato da individui malati che non vanno fieri di quello che fanno, detestano il proprio lavoro, le amicizie che frequentano, e infine se stessi. Ma è anche un teatro vuoto in cui echeggiano dialoghi virtuosamente orchestrati, tanto preoccupati a ritrarre il contesto storico, sociale, politico da ignorare l’intimità dei personaggi e negar loro la possibilità di diventare tali. Un produttore spietato, uno sceneggiatore disilluso, un ubriacone da pantomima, un genio ribelle e arrogante, e una bionda svampita che si rivela essere la persona più sensata, l’anima più pura, ma che da sola non riesce a salvare Mank dall'essere poco più di un carosello di grossolane caricature senz’anima, narrativamente vergini e insoddisfacenti.
Quanto agli aspetti più strettamente cinematografici, se la bravura di David Fincher non è manifesta quanto in altri suoi lavori restando tuttavia inopinabile, è la fotografia a essere tra tutte la cosa più indigesta. Un bianco e nero digitale stilisticamente incostante, che oscillando senza tregua e senza meta tra un’impacciata imitazione dei classici e il monocromatico procedurale di un vecchio iPhone fa sentire più che mai la mancanza della pellicola, del buon gusto, e del mestiere. Ah, quasi dimenticavo—vincerà senz’altro l’Oscar di categoria.

 
—acDavind Fincher, 2020
Rebecca

Con tutta l’ammirazione che provo per Ben Wheatley, temo che l’unica cosa buona della sua versione di Rebecca sia l’avermi portato a rivedere quella di Hitchcock, o di Selznick. La sua rilettura recupera un fondamentale punto narrativo che il codice morale dell’epoca aveva impedito di portare sullo schermo, ma abbandona una geniale variazione saffica che Hitchcock era riuscito a vendere all’altrettanto rigida censura di quegli anni.
La nuova drammatizzazione cinematografica di Rebecca fatica quanto già la prima a risolvere con brio un romanzo non certo privo di colpi di scena, ma non potendosi aggrappare al carisma di un attore come Laurence Olivier, finisce davvero con l’annegare. Se non nelle burrascose acque della Cornovaglia, nei fasti di una produzione senza molta anima, né apparente ragione d’essere.

 
—acBen Wheatley, 2020
Strasbourg 1518

Dei tanti cortometraggi realizzati ultimamente da autori noti (Mati Diop, Pablo Larraín, Paolo Sorrentino e Sebastián Lelio tra le firme di quelli che ho visto) ce n’è uno che riesce dove altri stentano a penetrare l’ovattatura creativa di questo tempo statico senza precedenti.
Facendo riferimento nel titolo a un singolare caso epidemico di impellenza compulsiva a danzare per strada, Strasbourg 1518 sottintende un’analogia tra lo stravagante episodio storico e la claustrofobica condizione attuale. Con i meschini mezzi domestici di tutti in questo periodo, Jonathan Glazer e Mica Levi si incontrano di nuovo dando alla luce un lavoro che convince e prende forza progressivamente facendo dell’isterismo collettivo un ipnotico spettacolo.
Il delirio e la dipendenza della vita in gabbia secondo il raro genio di chi riesce a mantenere vivo nel torpore il fuoco dell’inquietudine artistica.

 
—acJonathan Glazer, 2020
Devs

Lo stato in cui sono. Qualche giorno fa ho iniziato a vedere una serie televisiva. Tristo, rabido, perduto, non ero dell’umore di dedicarmi ad altro. Del primo episodio non ho capito molto, ma essendomi il tema relativamente familiare—determinismo, libero arbitrio—ho attribuito la débâcle alla mia inesperienza in fatto di serie e deciso che sarei comunque andato oltre. Stoicamente, appunto. Il giorno successivo, cercando il secondo episodio, mi sono reso conto che quello che avevo visto non era il primo, ma l’ultimo.
Devs di Alex Garland è un capitolo secondo—dopo Ex Machina—sul delirio di onnipotenza indotto dalla tecnologia e incoraggiato dalla diffusa tendenza a cercare messia tra le menti lungimiranti che la promuovono, la diffondono, oppure la vendono. La filosofia è l’esercizio del pensiero nella cui incoscienza l’arte beve e la vita si avvelena.
Devs riesce a descrivere l’inevitabilità del dialogo tra filosofia e scienza, ma stenta a dargli un ruolo narrativo, lasciando piuttosto che sia la sua altra anima di thriller a condurre. Più convenzionale di quello che speravo, resta un’intrigante riflessione sulle distopie che la cultura contemporanea ingenuamente corteggia e, in qualsiasi ordine per sventura o proposito lo si finisca col vedere, il lavoro eccellente di un autore brillante, ferocemente affamato.

 
—acAlex Garland, 2020