In un decennio—perché tanto sarà, nulla dura di più—in cui si leggono offesa e strumentalizzazione ovunque meno che dove stanno, ovvero nell’atteggiamento di chi per vantaggio, ottusità, paura o ipocrisia si scandalizza per la minima sciocchezza, Girl non poteva che accendere un interessante dibattito.
A destare una cagnara come il cinema sempre più raramente sa fare e a eccitare in modo diverso gli animi più sensibili e quelli più conformisti, è una storia che non racconta semplicemente l’incapacità di accettarsi, ma quella di riconoscersi di fronte a uno specchio. Un’insostenibile impossibilità che sposta progressivamente l’attenzione da un’ossessione a un’altra—quest’ultima più profonda, esistenziale, cupa ed estrema.
Quella con cui Lukas Dhont sorprendendo esordisce, è una meravigliosa vicenda di privato coraggio. Non è un manifesto, non giudica, e non vuole insegnare niente a nessuno—per quanto lo faccia nel migliore dei modi.
Laddove le comari hanno visto il ritratto sbagliato ed eccessivamente anatomico di una categoria, hanno visto giusto quello—una categoria. Ma Girl è altrove, è un film che unisce invece che dividere. E lo fa con gli occhi rossi di un padre, l’abbraccio di una guida severa ed esigente, il soffio di un bambino che prova a svegliarci. Nient’altro che il silenzio garbato della vita.