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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

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American Animals

American Animals comincia bene con una locandina estremamente arancione e attraente. Anzi, comincia ancora prima e meglio con un titolo attraente—e non tradisce.
Perfettamente a suo agio in una terra di mezzo narrativa quasi inesplorata, Bart Layton sfuma il confine tra documentario e rappresentazione riuscendo a fare vere star di quest’ultima, più che gli interpreti, i reali personaggi della vicenda.
American Animals è un lavoro d’autore che non pretende d’essere altro che un film di crimine e adrenalina per chi non volesse vederci di più. Per molti fortunati, sarà anche un grande punto interrogativo e un intelligente spunto di riflessione sulla nostra gioventù, i suoi sogni e le sue ambizioni—il nostro futuro.

 
—acBart Layton, 2018
The House that Jack Built

Guardare un film di Lars von Trier è come scoprire una stanza murata in una vecchia casa e trovare il passaggio per entrarvi. The House that Jack Built è di questi antri uno dei più minacciosi. Dentro è buio, c’è un odore di umido che non convince, anzi inquieta, ma fermarsi è impossibile. Muoviamo qualche passo pensando di retrocedere, invece avanziamo, ed è proprio quello che vogliamo. Spalanchiamo gli occhi incoraggiando le pupille a dilatarsi, ed è solo allora che cominciamo a vedere i bagliori e le ombre che in assenza di luce il nero mangiava.

 
—acLars von Trier, 2018
Girl

In un decennio—perché tanto sarà, nulla dura di più—in cui si leggono offesa e strumentalizzazione ovunque meno che dove stanno, ovvero nell’atteggiamento di chi per vantaggio, ottusità, paura o ipocrisia si scandalizza per la minima sciocchezza, Girl non poteva che accendere un interessante dibattito.
A destare una cagnara come il cinema sempre più raramente sa fare e a eccitare in modo diverso gli animi più sensibili e quelli più conformisti, è una storia che non racconta semplicemente l’incapacità di accettarsi, ma quella di riconoscersi di fronte a uno specchio. Un’insostenibile impossibilità che sposta progressivamente l’attenzione da un’ossessione a un’altra—quest’ultima più profonda, esistenziale, cupa ed estrema.
Quella con cui Lukas Dhont sorprendendo esordisce, è una meravigliosa vicenda di privato coraggio. Non è un manifesto, non giudica, e non vuole insegnare niente a nessuno—per quanto lo faccia nel migliore dei modi.
Laddove le comari hanno visto il ritratto sbagliato ed eccessivamente anatomico di una categoria, hanno visto giusto quello—una categoria. Ma Girl è altrove, è un film che unisce invece che dividere. E lo fa con gli occhi rossi di un padre, l’abbraccio di una guida severa ed esigente, il soffio di un bambino che prova a svegliarci. Nient’altro che il silenzio garbato della vita.

 
—acLukas Dhont, 2018
High Life

Ci sono film che più di altri paiono tendere oltre l’essere tali. Per quanti luoghi comuni si cerchi di fuggire, il linguaggio cinematografico ha i suoi schemi. Claire Denis li mette in crisi. La sua disinibizione creativa fa dell’immagine un corpo spoglio la cui cruda estetica è un incanto e un mistero. High Life dipinge con passione il panico esistenziale dell’uomo. E con tenera affezione, la sua piccolezza, il suo futuro.

 
—acClaire Denis, 2018
The Happy Prince

Spinto oltre che da un bizzarro e immotivato affetto nei confronti di Rupert Everett, dal desiderio di chiudere con coerenza una giornata come tante in cui ho fatto cose che non volevo fare, ho visto un film che non volevo vedere.
The Happy Prince è il bellissimo titolo di quello che temevo essere l’ennesimo dramma biografico su una persona morta o su una persona famosa. Mi sbagliavo.
Questo è il mio Oscar Wilde, sembra dire Rupert Everett a ogni battuta, con ogni inquadratura. Questo sono io, con gli occhi neri e gli angoli della bocca piegati in giù dal peso della vita. Scrollatosi di dosso la responsabilità e la boria del dramma mentitamente documentaristico, il suo principe è scaleno e fragile. E nella sua innamorata fiaba, è solo.
Se il vero Oscar Wilde è della terra e delle parole che scrisse, è proprio dalla profondità di queste ultime che Rupert Everett cerca un personaggio, la sua storia. Non nei vermi, come fanno i matti.
Voglio vedere nei film quello che non posso trovare altrove. Voglio vedervi l’autore, la grana della pellicola e soprattutto me stesso. Voglio vedere la verità nell’unico luogo in cui essa risieda—nella finzione.