Forse le canzoni. Specialmente quella cantata dalle cavernose corde di Adam Driver. Trovo che una canzone cantata male sia una canzone triste, un momento umano allarmante nella finzione come nella realtà.
Per il resto, Marriage Story è un film onesto e penetrante che riporta il cinema in luoghi frequentati sempre più di rado. Superbamente scritto e interpretato, sembra dar corpo in ogni suo passaggio a quello che Cocteau ci ricorda aver detto Pierre Reverdy—che l’amore non esiste, ma esistono solo prove d’amore.
Noah Baumbach riesce a intrattenere con due ore di cose normali puntando la macchina da presa dritta in faccia al pubblico e facendo dell’ordinario una sorpresa. Marriage Story ci entra in casa ad ascoltare e rubarci le nostre giuste ragioni, le nostre scuse meschine, il nostro ditruttivo non ascoltarsi. È uno spettacolo doloroso e spietato che ci mette a confronto come meglio di tutte può l’arte drammatica con quello da cui spesso, proprio nel buio di una sala o in un cantuccio caldo di fronte a uno schermo, cerchiamo di fuggire. Non quelle del mondo e delle sue storie, ma le nostre immense e comunissime tragedie, il nostro modo di amare così sincero e meschino, così caotico, volubile e meravigliosamente umano.