Spinto oltre che da un bizzarro e immotivato affetto nei confronti di Rupert Everett, dal desiderio di chiudere con coerenza una giornata come tante in cui ho fatto cose che non volevo fare, ho visto un film che non volevo vedere. The Happy Prince è il bellissimo titolo di quello che temevo essere l’ennesimo dramma biografico su una persona morta o su una persona famosa. Mi sbagliavo.
Questo è il mio Oscar Wilde, sembra dire Rupert Everett a ogni battuta, con ogni inquadratura. Questo sono io, con gli occhi neri e gli angoli della bocca piegati in giù dal peso della vita. Scrollatosi di dosso la responsabilità e la boria del dramma mentitamente documentaristico, il suo principe è scaleno e fragile. E nella sua innamorata fiaba, è solo.
Se il vero Oscar Wilde è della terra e delle parole che scrisse, è proprio dalla profondità di queste ultime che Rupert Everett cerca un personaggio, la sua storia. Non nei vermi, come fanno i matti. Voglio vedere nei film quello che non posso trovare altrove. Voglio vedervi l’autore, la grana della pellicola e soprattutto me stesso. Voglio vedere la verità nell’unico luogo in cui essa risieda—nella finzione.