Non è esattamente il tipo di film che più mi interessa, ma avevo letto un articolo del Times questa estate sul materiale che ha mosso il progetto e l’avevo trovato affascinante. Così eccomi scendere nel familiare cemento del Curzon Bloomsbury e raggiungere l’elegante sala Renoir per vedere, ricorda retoricamente la brutta locandina, l’ultimo film del regista di Skyfall. Ma anche, ricordo meglio io, di American Beauty e della meravigliosa rilettura cinematografica di Revolutionary Road, Richard Yates.
Cominciando con tinte da acquerello, appisolato su un campo che potrebbe essere di colze—secondo la stima di chi non distingue un’ortensia da un girasole—1917 elabora i racconti frammentari del nonno di Sam Mendes, che da giovane ufficiale trinidade combatté volontario la prima guerra mondiale con la divisa britannica. Accompagnato da una musica perfetta che detta il passo delle immagini e la frequenza cardiaca di chi guarda, il primo quarto d’ora del film è subito entusiasmante. Ma il lungo piano sequenza che terminerà coi titoli di coda (il film è girato non pionieristicamente, ma con bravura, come se fosse un’unica ripresa) perde di energia appena fuori dalle trincee. Là comincia lo spettacolo d’azione e di guerra più convenzionale. Di ratti, mutilazioni, inumanità e convenienti colpi di scena. Di nuovo la storia di un salvataggio impossibile e di un eroe improbabile. Di nuovo gli sfarzi di una produzione che ha più muscoli che anima. In linea con il pallore creativo di questi anni, un altro esercizio poco consistente a rifare invariatamente quello che, meglio o peggio, molti altri hanno già fatto.