Non ero riuscito a vederlo quando era in sala. Non mi ero impegnato molto. Nonostante la firma di Claire Denis, mi ero lasciato stupidamente scoraggiare dalla locandina—triste, trascurata, anzi inguardabile. Perchè le locandine sono importanti, lo sono per me, lo sono quanto le copertine di un libro o di un disco. E sono di solito una delle poche informazioni che ho su un film prima di vederlo. Spesso l’unica.
Normale e indispensabile, tanto diretto quanto complesso, Un beau soleil intérieur è la contraddizione della forma e della contraddizione un dipinto. Dramma e commedia non convivono semplicemente come in ogni vicenda umana—animano le stesse battute, le stesse parole, e questi dialoghi lunghi, a tratti incoerenti, frammentati, eppure musicali quanto arie di un’opera.
La camera guarda giù su una grossa tela bianca fissata al legno più bello, quello sporco di colore nello studio di un artista. Pentola e pennello, Isabelle vi cammina scalza cominciando a segnarla. Gesti puliti e minuziose sfumature disegnano tracce grasse, imperfette, vive. La sua cornice è la nostra. Ci chiediamo se siano segni casuali, istintivi, se comporranno un soggetto discernibile, se rimarranno astratti per sempre—se la loro ragione sia proprio l’essere dove prima non c’era nulla.
Ci sono film che più di altri paiono tendere oltre l’essere tali. Per quanti luoghi comuni si cerchi di fuggire, il linguaggio cinematografico ha i suoi schemi. Claire Denis li mette in crisi. La sua disinibizione creativa fa dell’immagine un corpo spoglio la cui cruda estetica è un incanto e un mistero. High Life dipinge con passione il panico esistenziale dell’uomo. E con tenera affezione, la sua piccolezza, il suo futuro.