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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

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Favolacce

Chiunque sia stato al cinema più di due volte nella vita sa che ci sono film che finiscono e altri che continuano. Ci sono titoli di coda in cui cui la gente si alza e gobba sfila tra le ginocchia altrui ciondolando verso l’uscita, e altri in cui tutti restano immobili a guardare il nero scorrere dei nomi, paralizzati in attesa che qualche idea prenda forma, che le lacrime si asciughino, o che qualcuno abbia il coraggio di muoversi per primo. Favolacce, il secondo diretto oltre che scritto dai fratelli D’Innocenzo, è di quest’ultima stregonesca razza.
Bambini adulti con una serie di padri bizzarri e bambini, e adulti inetti barricati nelle torri dei loro castelli sono le anime strane dalle pulsioni ferali che popolano un’estate di cicale assordanti e di aneddoti a metà tra favola e borgata.
Girato e interpretato magnificamente da un coro di visi e voci perfette—e trovando il passo in alcuni evocativi pezzi di Egisto Macchi1 nonché nel quasi mistico adattamento conclusivo della seicentesca Passacaglia della vita2Favolacce è una pastorale urbana vera come le pagine di un diario segreto che ci invita a riflettere su cosa questa generazione stia facendo per la prossima, quale insegnamento le stia dando e quale lascerà.
O forse no, forse è tutt’altro. Ma finché quel dubbio sarà vivo, lo saranno con esso l’incanto di un film speciale, la voglia di rivederlo, e rivederlo ancora.

1. Egisto Macchi, Città notte, 1972.
2. Rosemary Standley & Dom La Nena, Birds on a Wire, 2014.

 
La terra dell’abbastanza

Mi sento sempre un alieno quando mi ficcano in mezzo a questi siparietti così intensamente italiani. La mia provenienza si manifesta senza veli, ma nemmeno ostentazione, nostalgia o campanilismo. Ritrovarsi a mangiare palle unte con le mani annuendo a chi di turno, sputazzando, dirà che lui arancini migliori li trova al negozietto raccomandato dall’amico del cognato—ovvero un buco tricolore con il poster sbiadito di Rocky Marciano appeso al muro, la foto autografata di Marco Pantani o la sciarpetta polverosa di qualche squadra di calcio—non è mai la prospettiva che più mi attrae. Come non mi appartiene quel tipico volersi sentire immigrati fuggiti per necessità da una terra dove tutto è meglio e di tutto il resto ci si lamenta.
Riconosco nondimeno che le ragioni del malanimo con cui entro furioso al Regent Street Cinema per la proiezione organizzata da un’associazione che promuove il cinema italiano a Londra, siano un mestruo delirio motivato unicamente dall’ora, dalla corsa che ho fatto per arrivare in ritardo, e da una giornata tanto dimenticabile quanto difficile da scrollarsi di dosso.
Avvistatomi dal lato opposto del foyer, la mia controparte mi saluta sventolando i biglietti—e quando alla falcata da mediano con cui gli vado incontro ridacchiando commenta, la prossima volta ti dico che inizia mezz’ora prima come faccio con Caterina, mi sento subito a mio agio. Per fare ammenda del precedente pensare stronzo, reco il culo al mio sedile senza ulteriore indugio e senza contestare il paragone con questa misteriosa Caterina—la dea protettrice dei ritardatari.
La sala è meravigliosa. Pur frequentando la palestra dell’Università di Westminster nello scantinato dello stesso complesso in cui alloggia il teatro, non vi ero mai stato prima d’ora. Il velluto avocado, decadentemente elegante e gloriosamente art déco, mi ricorda i sanitari di casa che non sono riuscito a salvare dalla mano risoluta del recente rimodernamento. Come approfondirò a fine serata sulla via di casa, è un cinematografo storico. Aperto nel 1848, ospitò nel 1896 la prima proiezione del Regno Unito—un corto dei fratelli Lumière. Incantato dalla bellezza del luogo, mi arrampico senza corde o imbragatura sulle pendenze alpine della sua platea e raggiungo i posti che Caterina, tutt’altro che dea e per niente ritardataria, ci ha gentilmente tenuto.
Finalmente comodo, cerco di non ascoltare l’introduzione al film per arrivarvi immacolato. Approfitto con scaltrezza della loquacità di Caterina per girare altrove naso e orecchie, ma quando l’occhio mi cade sui suoi denti arancioni di nicotina preferisco concentrarmi sul cellulare, dove non sapendo cos’altro fare comincio a scrivere questa stessa nota.
Mentre mi perdo in lunghe frasi che non avrò tempo e voglia di rivedere, l’oratrice si congeda, le luci si abbassano e un lento jazz si fa Caronte nel portarci verso la sponda esterna del grande raccordo anulare. La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo, ha la sfortuna di arrivare in coda a decine di film simili, alcuni dei quali sono riuscito a vedere, alcuni dei quali ho trovato molto belli—ma colpisce per la maturità con cui tratteggia tutti i personaggi senza mai cedere al gioco della violenza da graphic novel o alla stucchevolezza dei dialoghi da scarso western.
La terra dell’abbastanza è un film che mette a nudo con l’ironia del realismo le sue anime tormentate amando i suoi codardi come i suoi eroi—mostrando leoni e leonesse senza pelo. Questo, almeno, è quello che ho pensato ritornando alla luce del foyer. Magari domani lo riterrò un commento sciocco, ma mi piace registrarlo così come s’è formato sulle immagini ancora vivide nella mente.
E mentre guardo gli altri ingoiare arancini e bere vino durante il tanto anticipato e temuto rinfresco, il riferimento a Quasimodo fatto nell’introduzione che non ho ascoltato comincia ad acquistare senso.
‘Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera.’