È un’aria gelida e irritante quella che soffia oggi da dentro la stazione facendone un mostruoso mantice di ceramica e ferro. È un’aria prepotente e attaccabrighe che sussurra allarmanti avvertimenti danteschi. G mi sta accanto ma non so dove sia. Sono momenti privati e solitari. Non ci si vede. Non ci si aiuta. Avanti tutta. Ignoro, e non vorrei, il venditore di riviste in cima alla prima rampa. È l’unico possibile testimone al mio presente disagio. Dovrei considerarlo un alleato, un parente, un confessore, ma ne faccio un momentaneo capro espiatorio. Il piacere esotico dell’essere ingiusto e l’effimera soddisfazione di una rivalsa fasulla su ignoti o innocenti.
Si scende perché si deve, perché è facile pensare di non aver scelta, perché tutto ciò che è facile, tutto sommato, non dispiace. Le polverose raffiche da congiuntivite proseguono con ostinazione senza prendere o dar fiato. Acquistano vigore con la profondità, gradino dopo gradino. L’atrio della biglietteria è un’atroce galleria del vento. L’attraverso con il coraggio invisibile di tutti e ingobbito dal freddo mi tuffo ad ariete nel tunnel delle scale mobili. È il tratto finale che porta ai binari, il più lungo e temuto, dove le folate aggrediscono con l’impeto maggiore, dove la fastidiosa codardia dello schiavo riluce, per qualche glorioso attimo, di una certa audacia. Ma è anche peggio. Oggi le scale mobili non funzionano. Sto zitto e procedo a piedi con un acuto lirico di cristodìo interiore.
Sono mille minuscoli gradini. Si scende nella tormenta sgambettando come ragnetti. È tardi e la corrente lo sa. Mi frena, mi spinge indietro, verso l’alto, fuori dalla stazione. Mi legge dentro. Cerca di farmi capire ciò che ben so e che continuo a ignorare. Arrivo in fondo senza essermi rotto l’osso del collo. Ne prendo atto con un malinconico senso d’orgoglio. La fretta uccide, ma G non è ancora vedova. L’aria mi da un’ultima distratta percossa, poi si placa. Qui sotto ha l’odore del ferro, ed il suo peso. Una moltitudine di copri umani in movimento scarso, minacciosa composizione distopica, sono ora di fronte a me. Una donna piange, chi le sta accanto la schiaffeggia. Il vecchio predice un futuro sbagliato. Un infante chiede vino. Ratti. Sono tutti in cerca di una purificazione che non otterranno. Come noi, stanno andando a lavorare.
Quand’è così tornerei immediatamente a casa o mi incamminerei verso Soho a piedi, offeso. Ma il perdono che come tutti inspiegabilmente cerco è un inganno che già confonde il mio molle istinto sovversivo. Il treno arriva, mi incuneo nella carne. L’odore torrido di cavolo bollito e cipolla mal digerita di cui il vagone è pervaso sono un’adeguata punizione al mio vile conformismo. Qui ci ritroviamo, tapini e uniti. E con un sorriso senza senso ci guardiamo, ci riconosciamo. Ce l’abbiamo fatta.
Con meravigliosa destrezza G estrae una rivista dalla borsa. Fedele alla testata, Stylist tratta esaustivamente di abbigliamento, moda, tendenze, celebrità, libri, arte, architettura, teatro, musica, cinema, storia, preistoria, scienza, medicina, maternità, silicone, gastronomia, ristoranti, locali e vacanze. Appollaiato alle sue spalle, partecipo alla lettura con sonnecchiati cenni di consenso, smorfie di disapprovazione o richieste specifiche del tipo, ‘Aspetta—’ oppure, ‘Gira—’
Spiaccicata attorno a noi sta una vivace brigata di ragazze in uniforme artica da turista mediterraneo avventuratosi al nord. Quando ci soffermiamo su un articolo che recensisce l’ultimo libro di J. K. Rowling, The Casual Vacancy, la capobanda prende posto con me in piccionaia e si unisce accigliata alla lettura. Con la coda dell’occhio vedo le sue pupille scatenarsi impazienti e bramose per la pagina. Temo che le schizzino fuori andando perse per sempre nella folla, ma fortunatamente non succede. Una possibile difficoltà con la lingua inglese le tende il viso crepando la guaina di cosmetici nauseabondi e alimentando una giusta apprensione nel gruppo. Con voce rotta e gradevole cadenza campana ci chiede finalmente, ‘È un nuovo libro di quella di Harry Potter?’ È il mio momento, ma i riflessi della prima ora sono ancora torpidi e non trovo lo slancio per rispondere. G interviene più tempestiva e socievole accompagnando alla conferma un sorriso e qualche commento di circostanza. Tra le amiche è immediato parapiglia. Il volto di lei è l’orgasmo di una vergine. I polmoni le si riempiono di un respiro che fa sembrare il Vesuvio esploderle in petto, ‘Mado’ se lo sa Antonio!’
In quell’istante l’omino nascosto nel controsoffitto del vagone chiama la nostra fermata e senza salutare scendiamo come molti, strappati al treno dal mandriano immaginario. Torno in superficie più disteso di quando mi ero immerso. Cammino verso l’ufficio sorridendo al pensiero di questo spiraglio partenopeo nel grigio quotidiano. E spero che Antonio non lo venga mai a sapere.