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le scimmie

Un lampo nero

Era la veglia muta e cobalto di una notte calda su una terra arida. In un cortile, un vecchio cane peloso con un nome difficile da ricordare dormiva il sonno inquieto e mezzo delle bestie. Si sentivano soltanto la luna e i rumori segreti che il giorno ignora. Poi un lampo nero. Una frustata di muscoli e fibra. Venne da fuori, saltò il muro di cinta, atterrò nel cortile. Il cane sussultò e si inchiodò gobbo sulle quattro zampe. Un leopardo. Il confronto fu immediato e feroce. I due si azzuffarono rotolandosi nella polvere senza un guaito, un ruggito, né sangue. I loro corpi si unirono rivolvendosi primordialmente come quelli di due amanti che si prendono. Finché al culmine dell’impeto un balzo decisivo e un morso alla gola strozzarono la danza. Il cane si trovò a terra penetrato dalle zanne ferme del rivale, mosso solo dallo stento del proprio respiro. I due animali rimasero immobili nella bellezza statuaria della furia e del dominio, illuminati appena da distinguere le reciproche pulsanti sagome. Quando non ci fu più dubbio su chi fosse re, il leopardo allentò la presa. Così come era apparso, si lanciò fuori oltre il muro e tornò a non essere mai esistito. Il cane si accucciò senza leccarsi il pelo stracciato sulle percosse, guardò il cortile vuoto col muso sghembo e tenne a lungo gli occhi aperti. Forse aspettando il momento, venuto il giorno, in cui la registrazione della telecamera a circuito chiuso avrebbe raccontato l’incredibile come lui non avrebbe mai potuto.

 
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Rinoceronte Chesterfield

Rinoceronte Chesterfield di cuoio vecchio, la seduta sfondata di vita umana, del suo odore bieco. Lo spinge con furia, da dietro, di lato. Mutandine, maglietta, i capelli sciolti. Il bianco e lo zenzero. Un suono tragico che gratta il legno e l’eco storta nello spazio vuoto, il soffitto alto. Dove prenderlo e come, fanno male le dita, i piedi puntati. È ridicolo e ridicolmente irritante. ‘Spingi più forte,’ le dice neutro con visione, mestiere. Lei conquista mezzo palmo. Tanto rumore per poco. Sudore e nervoso. Nervoso è un ruggito offeso e strozzato. ‘Ancora! Inventati altro.’ Lei si gira, un nuovo affanno, la smorfia scarlatta, la sua schiena contro quella dello scuro molosso. La pelle dolce ribolle, la pelle fredda, appiccicosa. Inutile. ‘È troppo pesante!’ Pausa di un tempo che dura poco. ‘Sei un’attrice!’ Le dice normale, le pagine in mano di una sceneggiatura. Ma lei è la rabbia, e la sconfitta. Non è così, eppure ha ragione. ‘È troppo pesante, non ce la faccio!’ Il suono sensuale della carta che vola, che atterra e scivola giusto ai piedi di lei. Poi si alza coi pugni e come un cristo sfatto, un passo perfetto, abbandona il palco, la parte non sua. Ma la scena là resta, immutata immutabile, e dei suoni immobili le inaudite grida.

 
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L’ultimo buscadero

Sono in piedi di fianco alla mia macchina, blu. Il motore spento tartaglia ancora caldo sotto il cofano poi si interrompe lasciandomi solo. Immobile come l’aria, guardo nella direzione in cui l’orizzonte è più distante, senza vederlo. Con le mani in tasca e il bavero alzato stringo le spalle al collo e sento la lana più calda sulla pelle. Davanti a me i campi stanno zitti. La nebbia bianca li protegge, sa di terra e della merda delle vacche. È il freddo da caldarroste dell’autunno padano, freddo umido che morde la carne. Una macchina passa lontana sull’asfalto bagnato. Un sussurro invadente, mi fa prendere coscienza del silenzio e indugiare sul viottolo che conduce alla cascina. Mi volto e la vedo, ferma e dritta con l’intonaco consumato da un tempo passato che mai fu nostro. Là vive un vecchio amico.
Lascio che la campagna mi riempia un’ultima volta i polmoni prima di muovere il passo verso la porta d’ingresso. Lo scricchiolio ovattato della ghiaia sotto le scarpe mi dice che sono vero, ma non mi convince. Ai sassi non si crede.
Il citofono penzola arrugginito. Premo l’unico tasto senza nome. La serratura si anima di un suono sgraziato che non c’entra niente. Varco la soglia col piede leggero di chi entra in chiesa in un momento di genuflessione, ma la porta sbatte rumorosamente alle mie spalle compromettendo la santità dei miei propositi.
Strette, ripide scale di pietra salgono alla mansarda, suo eremo. Mi arrampico senza guardarmi indietro come fanno gli alpinisti. Ad ogni scalino nel mio sacco sembrano prender corpo memorie sparse, e il loro peso mi conforta. Mi viene in mente quella foto in cui le nostre mamme si guardano e ridono. Io in spalla a mio papà, lui al suo. Quel secolo remoto senza peccato né peccatori.
Sono gli ultimi gradini. Trovo il ferro del corrimano e una scossa gelida che interrompe bruscamente il mio vaneggiare. Ripasso velocemente una parte mai scritta, ma è uno scrupolo infantile, retaggio e catena del bravo cristo che sono stato o sono ancora. Temo il momento in cui sarò di fronte ai suoi occhi, quelli di chi ha appena perso un fratello.
Di qualche anno più anziano di noi, era morto in moto alcune settimane prima. Una lunga storia di eroina ed erosione finita per strada con un botto di plastica. Aveva gli occhi dolci, me li ricordo scuri, e un giubbotto di jeans. Era ateo, godeva del fascino che a quell’età sono pochi anni in più di vita a conferire e amava i cavalli, i canarini.
La porta finalmente si apre. Lui laconico e asimmetrico come sempre. ‘Com’è?’
Il soggiorno è ampio e luminoso con le capriate di legno antico e le pareti fitte di dischi e libri. Eldorado. Un poster in bianco e nero di Taxi Driver in una sottile cornice bianca è l’unica immagine appesa. Due grandi finestre vedono il Rosa, i pioppi, i campanili e la cupa terra che la primavera farà brillare del verde e dell’oro del frumento o della segale o del granturco. Sparsi per il pavimento stanno alcuni mucchietti di scatole di sigarette vuote, nere. È un’installazione di quattro o cinque montagnole di talpa. Un crudo espressionismo domestico al cui grido do orecchie e cuore finché la sua voce interviene tentando una battuta dal tono vagamente apologetico. ‘Sono stato un po’ nervoso, ultimamente.’ Lo guardo di scatto come se fossi stato colto a sbirciare in un diario non mio, ma il suo sorriso sghembo sa di una comprensione inattesa e scarta ogni imbarazzo. Ricambio con una risata genuina, ma dentro taccio, lasciando che il disco dei Portished giri e faccia scivolare la conversazione verso acque più quiete.
Ci sediamo sul divano al centro della stanza, uno di quei divani complici che hanno preso la forma del culo. Gli racconto dei miei studi appena conclusi e della routine che ha fatto preda me e il mio animo inquieto. L’impressione di trovarci continuamente nel posto sbagliato è un tormento implacabile che condividiamo, e ci avvicina. Per una volta io ironizzo su questioni che sono solito affrontare con maggior impeto e lui sull’essersi trovato a dover scambiare una carriera da giornalista per una da magazziniere in un supermercato. ‘Se non divento almeno capo magazzino, allora è grave,’ mi dice con la rassicurante oggettività di chi ha vissuto di più.
Siamo alla deriva quando la poca luce ci dice che il pomeriggio è diventato sera. È mare aperto qui dove le parole ci hanno portato, ma non c’è da illudersi. La terra ferma ci troverà presto. La vista dalla mansarda è ora un iridato incanto. È più bello il tramonto dei mesi freddi. Mi alzo per andare. Ho già nelle orecchie la sveglia di domani e nelle narici il ferro del treno e l’alito denso degli altri vagabondi pendolari. Sarà un’ennesima alba che vedrò offuscata dalla condensa sul finestrino. Non vado via più sereno di come sono venuto, ma con un’ansia diversa che dà un gusto concreto alla voglia di camminare.
Faccio un ultimo sincero apprezzamento alla composizione di John Player Special. Sono certo che nella mia nota non leggerà né sarcasmo, né la superficialità borghese di volersi congedare in modo faceto. E saluto anche De Niro sul poster di Taxi Driver, che per nessun’altra ragione oltre al mio interesse per il cinema mi fermo nuovamente ad ammirare. ‘Un film penetrante.’ Ma una piccola cornice sullo scaffale cattura la mia attenzione e lascio cadere qualsiasi altro commento avessi in mente. Giacendo orizzontale in mezzo ai libri non l’avevo notata prima. I colori sono ingialliti e la carta leggermente incurvata. Miope, mi avvicino. Sono due bimbi in un prato. L’erba alta di un prato di montagna arriva loro alle ginocchia. C’è un bosco scuro sullo sfondo. Indossano magliette bianche e jeans chiari con il maestoso risvolto degli anni Ottanta. Stanno uno di fianco all’altro, rigidi come due soldatini, reggendo con soddisfazione due funghi appena colti. Il più grande trattiene una risata, impettito. È in punta di piedi per sembrare più alto. Si spinge senza sforzo, è così leggero. Sento voci calde da dietro la macchina fotografica riprenderlo con affetto. ‘Dai, non fare lo sciocco!’ Mentre l’altro, un nanetto timido e mingherlino, fa una smorfia goffa che non riesce a essere un sorriso. ‘Fermi, sorridete.’ So chi sono e non so niente affatto. La vita intera mi sembra racchiuso nei margini consumati di quel rettangolo di carta colorata. E ancora non l’afferro. Vorrei che non vedesse le lacrime che ho agli occhi. Rimango muto a fissare l’immagine aspettando che chi mi stringe il collo molli la presa. Ma in fondo a un vicolo cieco non si può far altro che tornare indietro, e così faccio voltandomi verso di lui. L’espressione che tento inutilmente di celare dice più delle parole che sarei in grado di offrire. Le sue spalle cadono in un profondo sospiro. Le braccia pesano lungo i fianchi. Poi gli occhi si riaprono per tornare a guardarmi, asciutti, fermi e disarmati. ‘Che altro posso fare, lascio che il dolore mi attraversi.’

 
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