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Barbara Streisand

Non ero più in ritardo del giusto. Stavo camminando verso la stazione assorto in pensieri indicibilmente matematici. Arrivato al passaggio livello, chiuso, passai sotto le sbarre come si faceva un tempo nei paesi. Me lo ricordo bene. Stavo andando a fare un esame con una professoressa che dalla piccionaia del teatro di via Ampère assomigliava a una quarantenne Barbara Streisand. Giunto a un passo dai binari, sentii lo schiaffo dell’aria spostata da un treno che passandomi a un metro si mise a fischiare come se gli avessi pestato le palle. Lasciai che la sfilata dei vagoni finisse portandosi appresso l’odore di ruggine e di grasso, poi proseguii, abbastanza vivo, con una sola idea in testa, un’esclamazione più pura e vergine del cemento fresco, dell’aria rarefatta, del futuro—che culo.

 
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Manure

Le immagini pittoresche dell’epoca delle carrozze celano un problema che negli anni di maggiore espansione della città minacciava di diventare incontrollabile. Anche i cavalli, secondo l’antica tradizione biologica, cagano.
Uno studio di fine Ottocento1 aveva predetto che entro mezzo secolo due metri e settanta di merda equina avrebbero sepolto le vie di Londra rendendole completamente impraticabili. In pochi decenni dalla sua pubblicazione, la diffusione delle macchine a motore aveva sputtanato l’immonda profezia e con essa il rigoroso lavoro di tanti rispettabili statistici.
Noi che tanto ci agitiamo per afferrare il futuro, non sappiamo altro che cercarlo nelle grette proiezioni lineari del presente. Ma il caso è sempre più creativo e sensato della logica triviale nella quale cerchiamo accanitamente di costringerlo.

1. The great horse manure crisis of 1894, ricordata in questi termini da un articolo di Stephen Davies del 2004.

 
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King Kong

Il ragazzo ossigenato alla cassa del supermercato mi chiede se ho un drago al collo e cosa ho fatto la sera prima. Ho visto un film, gli rispondo svuotando il contenuto del cesto, la sopravvivenza settimanale, sul rullo nero incalzante. Ho visto King Kong, quello di Peter Jackson. Quello vecchio, secondo il suo metro temporale.
Di tutte le bestie favolose che abitano le nebbie giurassiche dell’isola inesplorata, gli improvvisati avventurieri occidentali tribolano per portarsi via l’unica che nell’avanzo di mondo da cui provengono non è estinta. Non prendono l’uovo di un dinosauro, la larva di un insetto gigante, il seme di una pianta sconosciuta, l’indigeno sdentato dalla pelle color ruggine o la sua gioielleria di ossa, zanne e microcefali teschi. Rischiano la vita per rapire un gorilla, un animale ferito la cui unica anomalia è l’eccezionale stazza.
Tra il porro e l’avocado e i piselli surgelati, conveniamo che la romantica tragedia scimmiesca è qualcosa di più della banale predica sull’avida materialità del genere umano, la sua arroganza nei confronti della natura, la sua inguaribile pulsione all’inguaiarsi. È una critica feroce e sorprendentemente acuta alla sua mancanza di ambizioni, all’uomo che non vede oltre le sue lenti e preferisce possedere quanto già conosce piuttosto che recare altrove il suo sogno, e il suo successo.

 
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Clark Gable

Un messo suona alla porta. So che si tratta di un pacco. Quando c’è un pacco è sempre una festa anche se conosco, come in questo caso, il contenuto—una confezione di ventiquattro pile AA, come A. A. Gill.
Scendo le scale eccitato. Quando apro, il corriere si è già allontanato di qualche passo per limitare la promiscuità. Non devo firmare niente, mi chiede la data di nascita. Ventisei, dodici, settantacinque. Poi un chiarimento, millenovecento? Non saprei cos’altro, ma sto al gioco—millenovecento. Sembri ancora giovane, osserva trascrivendo con un cenno di capo. Non so che dirgli. Comunque ringrazio e senza volerlo sorrido, segretamente incoraggiando l’ammiccante seduttore in polo rossa ad andare oltre. Ma lui si gira. Spietato come Clark Gable balza sul muscoloso mezzo e con un afono ruggito del motore se ne va.
Mentre risalgo le scale con qualche anno in meno e ventiquattro pile in più, ripenso al commento e lo rileggo—se giovane sembro, è perché giovane non sono. Vedi che stronzo. La prossima volta le pile le compro al supermercato, dove i commessi hanno molto più tatto.

 
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Djuna Barnes

Leggevo questa mattina che Djuna Barnes continuò a rivedere le sue poesie per anni dopo la prima pubblicazione. Un meticoloso lavoro di riscrittura che proseguì ben oltre il suo breve periodo di relativa fama, in un’età che pochi—nemmeno gli amici intimi, che da tempo la davano deceduta o impazzita—sanno raggiunse nella lucidità più febbrilmente produttiva.
Questo mi fa pensare a due cose, una delle quali è la metà di un ricordo. Il fascino di creare per un pubblico che non è mai vero non esista, ma è piuttosto un fantasma e ha dello stesso l’eterea presenza. E il meraviglioso trepidare dell’artista nel sospendere un dialogo, la sua totale incapacità di estinguere il fuoco che lo alimenta.
Traghettandosi in doppiopetto blu da un lato all’altro dell’aula della nave, con una mano in tasca e l’altra per aria a fare incantesimi sugli studenti, il mio professore di composizione architettonica ricordava spesso un aforisma che la mia memoria, probabilmente sbagliandosi, attribuisce a Gropius. Il processo creativo è solo il fermo immagine di un film non ancora finito, che non finirà.

 
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