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gente e strade

Argentina destrezza

Un uomo corre sul marciapiede con l’affanno di un pazzo. Con la stessa argentina destrezza un altro lo insegue scartando madri e passeggini, vecchi turisti, braccianti e pedoni inqualificabili. Un crimine è in atto, realizza il pubblico lasciandosi inebetire dallo spettacolo con cinico gusto. Fermare il fuggitivo, magari un ladro. Fermare l’inseguitore, un bruto, un assassino. Oppure lasciare che sia il rumore, e il suo corso ingiusto.


 
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Porz Goret

In un ristorante pieno come un venerdì sera, il pianista suona nell’angolo vicino alla finestra e nessuno l’ascolta. Il rumore di fondo è un motore acceso che appanna i vetri e procura la mezza sordità dei locali affollati. L’adone in grembiule che corre tra i tavoli, serve col garbo di chi è troppo alto per il mestiere. Quando passa vicino al piano, scambia due parole col tapino musico e gli prende il posto. Ci vogliono poche note perché la sala si fermi. Qualche tintinnio di posata fa eco alle ultime voci che si spengono. Le conversazioni rimangono sospese in qualche ridicolo luogo, mentre le corde sorprendono e muovono anche il più gretto degli increduli, famelici astanti.


 
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Hampstead Heath

I sentieri di fango scivolosi e freddi. Petrolio. Oggi è l’incanto di una tela di Constable. L’aria asciutta della collina si lascia attraversare dalla pioggia senza un lamento. Il cielo è inquieto, incostante sopra le piante ancora scure. I tronchi immensi sono vecchi milioni di anni. L’Heath. Camminiamo come se ne fossimo sempre stati parte, e non apriamo gli ombrelli. Troviamo una panchina in una zona del bosco dove le piante sono tanto grandi da creare uno spazio raro, lontano da questa giornata di ansie logore e memorie che piangono per nessun motivo. Ci sediamo senza guardarci a respirare ogni singolo, sparuto fremito di natura ribelle. Un tetto di rami folti ci protegge dall’acqua che scende giovane e nuda, sempre più forte. Di fronte a noi, oltre l’arco angusto formato dagli alberi, un ampio ritaglio di brughiera. Scambio un cane per un porco rincorrersi da solo in lontananza. Qualche ramingo sta in mezzo al prato con gli stivali. Chi altri, se non attori o poeti di metà settimana. Non ci stupiremmo se due di loro fossero Keats e Coleridge. Sapremmo piuttosto di essere noi, di questa fiaba, gli unici fantasmi.


 
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Una papera cieca

L’unico sintomo influenzale certo da covid di chi non ne ha altri, pare essere una pruriginosa pulsione podistica. Si vedono per strada persone che nemmeno hanno mai camminato eppure vanno, sbuffano come treni, sudano come foche, pendono da un lato con tragedia a volte con gli occhi girati all’indietro. Per quanta fisica e metaforica meraviglia ci siano nel gesto, nel desiderio di inseguire un’immagine di noi migliore, nel fuggire dal tempo che ci rincorre e ci acchiappa, quello che davvero ipnotizza del correre è quanti si siano dimenticati come si faccia.
Non è poi così vero che si diventi vecchi quando si comincia a dare consigli o quando ci si aspetta che vengano seguiti, ma quando piuttosto si smette di correre con la dignità dei bipedi. La gioventù è un cigno stronzo che se ne va con l’improbabile trotto equino di una papera cieca.


 
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Nastri di plastica

Di tutte le cose che non stanno funzionando in questi mesi di barricata—i negozi chiusi, i teatri, i ristoranti, il passaggio raro dei bus vuoti negli orari in cui di solito si vomita acida un’inspiegabile adrenalina. Dei segni più inquietanti che noto con distacco—i fiori sulle porte delle case, l’evitarsi della gente per strada, il guardarsi perso e goffo sopra le ridicole museruole. Di tutto questo insolito e mesto carnevale, c’è un’immagine che dopo tre mesi ancora mi tocca più di altre—i giochi dei bambini abbandonati all’erba non tagliata, alle pozzanghere nere, cintati da transenne e nastri di plastica colorata come fosse un sito radioattivo oppure il luogo di un omicidio. E ancora più cupo e triste, è realizzare che l’omicidio c’è stato davvero—di quelli più crudi, bruti e deludenti in cui nessuno muore, eppure un poco muoiono tutti.


 
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