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gente e strade

Santa Maria Maggiore

Avevo ancora qualche ora prima che il treno per l’aeroporto partisse. Di strada verso Termini, avevo deciso di scalare l’Esquilino. Non entravo in Santa Maria Maggiore da trent’anni, se mai vi ero stato quando coi miei, ad agosto, passavo da Roma sulla via del mare.
Ai piedi della scalinata che sale verso l’ingresso della basilica trovo un baldacchino bianco. Non si tratta di un mercatino rionale, di una raccolta di firme, o della festa del libro, ma della presenza ben più allarmante dei controlli di sicurezza. D’altro canto—riconosco con apprensione—l’eternità di questa città non è più un prodigio. Va guadagnata giorno dopo giorno, protetta con le mani, e con le cose brutte come questa invadente distopia aeroportuale.
Con quel dimenticato misto di giusto e fastidio che si provava andando a messa la domenica, mi preparo all’ispezione, ma la donna in uniforme decide che il mio muso pallido da forestiero non è quello di un fanatico integralista o di un vandalo, e non curandosi della valigia che mi porto appresso—che per quello che ne sa lei potrebbe nascondere un ordigno bellico inesploso, due fiaschi di gas nervino, il corpo smembrato di un nano, o una partita difettosa di fuochi d’artificio—mi risparmia l’umiliazione e mi fa passare.
Una volta dentro, la fresca atmosfera di pietra, cera, e legno mi leva giugno dalla pelle calda. Mentre avanzo cigolando sul lucido marmo, riflettendo senza troppa partecipazione su come i banchi di chiesa abbiano incredibilmente lo stesso odore in tutto il mondo, sono raggiunto e superato da una delegazione di tre sacerdoti che con un drappeggiante passo dell’oca infilano spediti la navata centrale.
Quello al centro con la pelle bronzea e la tonaca scura, sembra fare l’andatura. Due clerici pallidi e ingobbiti la cui stanca pomposità lo fanno sembrare ancora più aitante, lo spalleggiano. Giunti all’altezza dell’altare, il giovane compadre si ferma sull’esatta mediana, e compiendo un movimento ampio e atletico quanto l’inchino di un’artista olimpica, sfoggia il più magnifico segno della croce che si sia mai visto. Uno dei due anziani gregari lo segue interpretando lo stesso gesto con la sbrigativa praticità di una fede più matura. È poi il turno del terzo, che estraendo un fazzoletto grande quanto un mantello da sotto la tonaca, esplode in un preistorico starnuto, e osservando una ritualità in effetti eucaristica, si dà senza fretta a una spernacchiante speleologia nasale. Tutto ciò, senza degnare Cristo inchiodato del minimo cenno.
Certi che l’umido fardello sia stato riposto, il trio si rimette quindi in viaggio con la stesso compatta, silenziosa andatura. E così io. Roma, la Chiesa e l’Uomo, penso vedendoli svolazzare via. Che meraviglia.


 
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