—ac
LaszloMoholy-Nagy_PP.jpg

gente e strade

Tenpin Bowling

Quando esco di casa con intenzioni sbagliate, passo da un parco pieno di scoiattoli che mangiano ghiande. Il pigro umano appressarsi non li inquieta, né li distrae la mia isterica marcia. Sono forse abituati, oppure sanno che a quell’ora non ho fame. Sul bus c’è un signore che parla da solo. Dovrei dispiacermi del suo anomalo farfugliare, ma è il più sereno dei passeggeri—perché rattristarmene. Di fronte alla stazione di Finsbury Park torreggia un edificio in mattoni rossi ostentante la dicitura biblica TENPIN BOWLING, POOL, MUSIC & DANCE, LATE BARS. Ai suoi piedi, una donna in avanzato stato di maturità fisica, predica con fervore e vende per caso riviste su Dio. Una giovane coi capelli bagnati e lo zainetto asciutto le rivolge una parola che viene ignorata. Io intanto ordino un americano a una barista sovrappeso con la criniera ossigenata. Mi dice che assomiglio a un attore di cui non ricorda il nome. Scappo prima che le venga in mente perché l’ultima volta che mi sono trovato gratuitamente oggetto di un paragone promettente, fu una delusione dalla quale non mi sono mai ripreso. Di nuovo in superficie a Warren Street, una ragazza a forma di matriosca chiede l’elemosina. Sta accovacciata per terra. Ha il viso perlato e gli occhi più azzurri. Le chiedo quanti anni ha, ma non parla la mia lingua. Non gliene do più di venti, spero che le bastino. Poi le lascio il poco soldo che ho con me, ma lei non se ne accorge. Passo per Fitzroy Square e sbircio senza motivo o aspettative dentro il palazzo dove Woodcock vive, lavora e beve tè—oppure per la via parallela, dove un capannello di brava gente ipocalorica in cardigan di lanetta prega davanti a una clinica che pratica aborti. Superato il barbiere smilzo col cappellino da ciclista, sono quasi giunto a destinazione. La maestosa falcata sbiadisce e muore davanti al vetro della porta d’ingresso. In essa mi intravedo—un riflesso o un miraggio. Evito l’ascensore perché è un lento montacarichi, perché mi fa sentire un carico, e perché al suo interno, quella che fu aria, sa di orrore e grande schifo. Salgo ciondolando, rischiando un passo sì e uno no di finire nella tromba delle scale. In quel momento mi ricordo che vorrei essere in campo, strappare un ciuffo di erba da terra e darlo al vento per vedere in che direzione tira. Ma qui non si muove nulla e c’è troppo rumore—ed è tutto ciò che si sente.


 
—ac