Ci vado sempre con non meno di tre libri nuovi oltre a quello che sto leggendo, quattro o cinque monografie cinematografiche, interviste ad autori e artisti vari, una quantità inimmaginabile e in altro contesto scoraggiante di articoli accumulati nei secoli, qualche documentario che ho già deciso non guarderò perché la mia febbre da non-fiction si manifesta tanto virulenta quanto rara non più che decennalmente, e naturalmente il materiale per scrivere—quest’ultimo con l’aspettativa, anzi la certezza, di finire almeno una delle sceneggiature a cui sto lavorando, nonché una bozza di un libro i contenuti del quale sono ancora un assoluto mistero. In attesa del mio turno, non mancherà il tempo di pensare anche a quello. Invece no, nemmeno una frazione di quanto sopra. Arrivo. Do atto della mia presenza. Un’infermiera mi dice, si segga lì, indicando una sedia ben precisa in una fila di quaranta vuote, indovinando con inquietante stregoneria quella che avrei scelto io. E proprio mentre accompagno al gesto della seduta quel ridicolo verso animale che libera il guerriero estraendosi la spada del nemico dalla pancia, qualcosa di ben più sadico mi trafigge—il suono funesto del mio mal pronunciato cognome. Così, con sforzo ancora maggiore, quando baciando con le natiche la seduta stavo già sfogliando mentalmente le alternative del mio portentoso intrattenimento, mi rialzo. L’efficienza di un ospedale è lodevole fino a un certo punto, oltre il quale diventa decisamente fastidiosa.