Fuori dalla stazione di Finsbury Park sta un cristo identico a me. Ha forse un aspetto più sporco e trasandato, ma di questo non garantisco d’essere un giudice imparziale. Posso però contare che ha meno denti, meno capelli e più barba. Il volto lubrificato dal grasso del motore gli da l’espressione scura di un meccanico che si è appena scivolato fuori da sotto un autocarro. Ha una giacca dello stesso colore della mia, che lui porta scalena e sbracatamente aperta nonostante l’acuto artico di questi ultimi giorni. Disciplinato e inflessibile, spartisce indifeso l’isterico esodo mattutino, ma è da un pulpito che solo io sembro notare che con modesto sentimento e una smorfia tesa da primate stitico annuncia, ‘Siete tutti importanti, perché avete una vita.’ La nota mi paralizza nello spazio e nel tempo come all’apice di un balzo. Lo scarno messia dalla voce distrutta dice in vero—cosa intende esattamente? Vorrei fermarmi e approfondire, chiergli se ha un nome, la sua storia e di chi è figlio, ma gli passo davanti a un’andatura troppo lanciata per riuscire a fermarmi senza causare un incidente orribile e un sanguinario incastro di corpi—di vite importanti. L’orario di punta della civiltà urbana possiede un inalterabile cinismo intrinseco che può sia sulla mia volontà che sulle sue parole. Così scivolo via, diversamente lubrificato, portandomi dietro quella frase. Siamo tutti importanti, perché abbiamo una vita—non ho mai creduto a domineddio che me l’ha mandato a dire per mezzo secolo, ma a te voglio dare fiducia, sfortunato profeta. La prossima volta non scapperò via. La prossima volta, naturalmente.