Sono in piedi di fianco alla mia macchina, blu. Il motore spento tartaglia ancora caldo sotto il cofano, poi si interrompe lasciandomi solo. Immobile come l’aria, guardo nella direzione in cui l’orizzonte è più distante, senza vederlo. Con le mani in tasca e il bavero alzato stringo le spalle al collo e sento la lana più calda sulla pelle. Davanti a me, i campi stanno zitti. La nebbia bianca li protegge, sa di terra e della merda delle vacche. È il freddo da caldarroste dell’autunno padano, freddo umido che morde la carne. Una macchina passa lontana sull’asfalto bagnato. Un sussurro invadente, mi fa prendere coscienza del silenzio e indugiare sul viottolo che conduce alla cascina. Mi volto e la vedo, ferma e dritta con l’intonaco rotto da un tempo passato che mai fu nostro. Lassù vive un vecchio amico.
Lascio che la campagna mi riempia un’ultima volta i polmoni prima di muovermi verso la porta d’ingresso. Lo scricchiolio ovattato della ghiaia sotto le scarpe mi dice che sono vero, ma non mi convince. Ai sassi non si crede.
Il citofono penzola arrugginito. Premo l’unico tasto senza nome. Quasi istantaneamente, la serratura si anima di un suono disgraziato che poco c’entra con tutto il resto. Varco la soglia col piede leggero di chi entra in chiesa in un momento di genuflessione, ma la porta sbatte rumorosamente alle mie spalle compromettendo la santità dei miei propositi.
Strette, ripide scale di pietra salgono alla mansarda, suo eremo. Mi arrampico senza guardarmi indietro come si dice facciano gli alpinisti. Scalino dopo scalino, nel mio sacco sembrano prender corpo memorie sparse, e il loro peso mi conforta. Mi viene in mente quella foto in cui le nostre mamme si guardano e ridono. Io in spalla a mio papà, lui al suo. Quel secolo remoto senza peccato né peccatori.
Sono gli ultimi gradini. Trovo il ferro del corrimano e una scossa gelida che interrompe bruscamente il mio vaneggiare. Ripasso velocemente una parte mai scritta, ma è uno scrupolo infantile, retaggio e catena del bravo cristo che sono stato o sono ancora. Temo il momento in cui sarò di fronte ai suoi occhi, quelli di chi ha appena perso un fratello.
Con quel nome da donna, bellissimo, e qualche anno più di noi, era morto in moto alcune settimane prima. Una lunga storia di eroina ed erosione finita per strada con un il suono intollerabile di uno squarcio di plastica. Aveva gli occhi dolci, me li ricordo scuri, e un giubbotto di jeans. Amava i cavalli, i canarini, ed era ateo.
La porta finalmente si apre, lui laconico e asimmetrico come sempre. ‘Com’è?’
Il soggiorno è ampio e luminoso con le capriate di legno antico e le pareti fitte di dischi e libri. Eldorado. La locandina di Taxi Driver in una sottile cornice bianca è l’unica immagine appesa. Due grandi finestre vedono il Rosa, i pioppi, i campanili, e la cupa terra che la primavera farà brillare del verde e dell’oro del frumento, della segale, o del granturco. Sparsi per il pavimento stanno alcuni monticelli di scatole di sigarette vuote, nere. Un’installazione di crudo espressionismo domestico la cui eco ferina mi scuote. ‘Sono stato un po’ nervoso, ultimamente.’ Lo guardo di scatto come se fossi stato colto a sbirciare in un diario non mio, ma il suo sorriso sghembo sa di una comprensione inattesa e scarta ogni imbarazzo. Ricambio con una risata genuina, ma dentro taccio mentre in sottofondo, perfetti, i Portished.
Ci sediamo al centro della stanza, su uno di quei divani complici che hanno preso la forma del culo. Gli racconto dei miei studi appena conclusi, del ripetersi sbagliato dei giorni che ha fatto preda me e il mio animo inquieto. L’impressione di trovarci continuamente nel posto sbagliato è un tormento implacabile che condividiamo, e ci avvicina. Per una volta io ironizzo su questioni che sono solito affrontare con maggior impeto e lui sull’essersi trovato a dover scambiare una carriera da giornalista con una da magazziniere in un supermercato. ‘Se non divento almeno capo magazzino, allora è grave,’ mi dice con la rassicurante oggettività di chi ha vissuto di più. E poi oltre, parlando di sogni e rimpianti, di niente che ci possa salvare. Finché la sera ci avvolge di un buio che ci tuttavia teniamo, perché ci basta.
La vista dalla mansarda è ora un iridato incanto. È più bello il tramonto dei mesi freddi. Mi alzo per andare. Ho già nelle orecchie la sveglia di domani e nelle narici il ferro del treno e l’alito denso degli altri vagabondi viaggianti. Sarà un’ennesima alba che vedrò offuscata dalla condensa sul finestrino. Non vado via più sereno di come sono venuto, ma con un’ansia diversa che dà un gusto concreto alla voglia di camminare.
Appena tagliato dalle ultime ombre di un sole già andato, mi fermo ancora un istante, perché devo ed è giallo, sul vivido ferro del taxi di Scorsese, quando una piccola cornice sul ripiano appena sotto cattura la mia attenzione. Giacendo orizzontale in mezzo ai libri non l’avevo notata prima. I colori sono ingialliti e la carta leggermente incurvata. Miope, mi avvicino. Sono due bimbi in un prato di montagna. L’erba alta e spinosa arriva loro alle ginocchia. Un bosco scuro sullo sfondo. Indossano magliette bianche e jeans chiari con quel maestoso risvolto degli anni Ottanta. Stanno uno di fianco all’altro, rigidi come due soldatini, reggendo con soddisfazione due funghi appena colti. Il più grande trattiene una risata, impettito. È in punta di piedi per sembrare più alto. Si spinge senza sforzo, è così leggero. Sento voci calde da dietro la macchina fotografica riprenderlo con affetto. ‘Dai, non fare lo sciocco!’ Mentre l’altro, un nanetto timido e mingherlino, fa una smorfia goffa che non riesce a essere un sorriso. ‘Fermi, sorridete.’ So chi sono e non so niente affatto. La vita intera mi sembra racchiusa nei logori margini di quel rettangolo di carta colorata. E ancora non l’afferro. Vorrei che non vedesse le lacrime che ho agli occhi. Rimango muto a fissare l’immagine aspettando che chi mi stringe il collo molli la presa. Ma in fondo a un vicolo cieco non si può far altro che tornare indietro, e così faccio, voltandomi verso di lui. L’espressione che tento inutilmente di celare dice più delle parole che sarei in grado di offrire. Le sue spalle cadono in un profondo sospiro. Le braccia pesano lungo i fianchi. Poi gli occhi si riaprono per tornare a guardarmi, asciutti, fermi, e disarmati. ‘Che altro posso fare, lascio che il dolore mi attraversi.’