Rinoceronte Chesterfield di cuoio vecchio, la seduta sfondata di vita umana, del suo odore bieco. Lo spinge con furia, da dietro, di lato. Mutandine, maglietta, i capelli sciolti. Il bianco e lo zenzero. Un suono tragico che gratta il legno e l’eco storta nello spazio vuoto, il soffitto alto. Dove prenderlo e come, fanno male le dita, i piedi puntati. È ridicolo e ridicolmente irritante. ‘Spingi più forte,’ le dice neutro con visione, mestiere. Lei conquista mezzo palmo. Tanto rumore per poco. Sudore e nervoso. Nervoso è un ruggito offeso e strozzato. ‘Ancora! Inventati altro.’ Lei si gira, un nuovo affanno, la smorfia scarlatta, la sua schiena contro quella dello scuro molosso. La pelle dolce ribolle, la pelle fredda, appiccicosa. Inutile. ‘È troppo pesante!’ Pausa di un tempo che dura poco. ‘Sei un’attrice!’ Le dice normale, le pagine in mano di una sceneggiatura. Ma lei è la rabbia, e la sconfitta. Non è così, eppure ha ragione. ‘È troppo pesante, non ce la faccio!’ Il suono sensuale della carta che vola, che atterra e scivola giusto ai piedi di lei. Poi si alza coi pugni e come un cristo sfatto, un passo perfetto, abbandona il palco, la parte non sua. Ma la scena là resta, immutata immutabile, e dei suoni immobili le inaudite grida.