Non ero più in ritardo del giusto. Stavo camminando verso la stazione assorto in pensieri indicibilmente matematici. Arrivato al passaggio livello, chiuso, passai sotto le sbarre come si faceva un tempo nei paesi. Me lo ricordo bene. Stavo andando a fare un esame con una professoressa che dalla piccionaia del teatro di via Ampère assomigliava a una quarantenne Barbara Streisand. Giunto a un passo dai binari, sentii lo schiaffo dell’aria spostata da un treno che passandomi a un metro si mise a fischiare come se gli avessi pestato le palle. Lasciai che la sfilata dei vagoni finisse portandosi appresso l’odore di ruggine e di grasso, poi proseguii, abbastanza vivo, con una sola idea in testa, un’esclamazione più pura e vergine del cemento fresco, dell’aria rarefatta, del futuro—che culo.