Entrano un uomo e un cane. Sono difficili da distinguere. Uno è un piccoletto dal pelo tanto e ispido. L’altro, un cubo tarchio e irrequieto dal manto scuro e la saliva densa. Sembrano usciti da un nuraghe. Il primo mi si piazza di fianco come un ceppo secolare, mentre il secondo, sempre più nervoso, si guarda in giro decidendo chi sarà il primo ad ammazzare.
Deprivato della volontà dall’ora, sento l’odore del mio destino pungere. Sa dell’ascella di un cane o del suo padrone. E con una dignità per cui non verrò dimenticato, smetto di leggere e aspetto il momento in cui ringhio mi azzannerà un polpaccio.
Invece no. Con le natiche contratte al pensiero delle mie ossa sgretolarsi nelle orribili ganasce, vedo la sanguinaria creatura accucciarsi ai piedi di sapiens e di colpo acquietarsi. Il suo muso non più teso che ora scalda la gommaccia umida del vagone non è quello di una macchina mortale, ma di un animale spaventato che guarda in sù.
Quando incrocio il suo sguardo mi accorgo istantaneamente di non aver mai dimenticato quello del mio Cando. Sono gli stessi occhi marroni e interrogativi. Non l’ho mai cagato abbastanza. O forse no, forse era lui a non cagare me. Ero piccolo con gli stivali gialli di gomma anche ad agosto, e se è la nostalgia a inquinare i ricordi, lascio che faccia. Ma a una cosa devo credere, che ci siamo guardati negli occhi abbastanza spesso e a lungo da non averli dimenticati, da non esserci mai persi.
Venerdì sera con lo stomaco e la testa vuoti da qualche parte sotto Camden Town, mi piace pensare che sia stato così.