Parlando di nidi e cuculi con un amante di Čechov, irlandese ateo, mi sono reso conto di aver trascorso la mia infinita infanzia di fronte a un televisore sul quale girava senza interruzione Amadeus di Miloš Forman. Avendolo riguardato di recente dopo una lunga pausa, penso che nel suo genere, concessagli qualche veniale smanceria drammaturgica tipica del cinema di quegli anni, sia ancora un film formidabile.
Nel riscrivere per lo schermo, Peter Shaffer mette mano al proprio lavoro con risoluta maestria da macellaio riuscendo non solo a proteggere l’autenticità dei temi—l’apollineo e il dionisiaco, la passione e la disciplina, il tormento e l’estasi, e poi l’invidia—ma a dar loro forza con dialoghi ancora più taglienti e scene pervase del più indomabile romanticismo.
Sotto un cielo lugubre che piange la morte, tre sconosciuti infreddoliti alzano il bavero e si incamminano gobbi sulla terra bagnata. Tra le croci di ferro e le tragiche piante di fine autunno è arrivato il carro. Sono i becchini. Per loro, è la mattina qualunque di un cristo morto come tanti.
Non esiste immagine che meglio ritragga il mestiere del cineasta di quella del mito di Sisifo, obbligato nell’eternità dell’Ade a spingere un enorme masso in cima a una montagna per poi lasciarlo rotolare giù e ricominciare tutto da capo. Non esiste film che dia corpo a quell’immagine in modo più vivido e fisico di Fitzcarraldo. Le più profonde tracce lasciate dall’umanità sembrano venire dalle ossessioni più insane e incomprensibili. Fitzcarraldo è il diario di una pazzia, la cronaca autobiografica di un sogno, o di un tormento. Nello sguardo stoico di Werner Herzog, in quello ardente e alieno di Klaus Kinski, l’impenetrabilità di un mistero e i riflessi di una jungla fitta come la passione che spinge i pochi lassù, verso l’impensabile.
Le lunghe, pesanti gonne appena mosse da un’aria lenta e surreale. Tre donne assistono assorte a una scena fuori campo. Noncuranti dell’occhio meccanico dell’osservatore, sembrano ipnotizzate da una visione che sarà sempre solo loro. È una celebre foto di Lucien Hervé alla quale Marcell Iványi offre ancora studente una personale lettura. Szél è girato con economia stilistica magiara secondo una narrativa straordinariamente e ingegnosamente cinematica. In una sola scena, una semplice rivoluzione di camera sul treppiede, seguiamo la voce del vento cercando una risposta al mistero. La curiosità si fa inquieta, diventa angoscia, orrore, infine pragmatica rassegnazione. Non sono i sette minuti che cambiano la storia del cinema, ma il tempo non perso che ruba lo sguardo di una luna minore, intensamente splendente.
Dei tanti cortometraggi realizzati ultimamente da autori noti (Mati Diop, Pablo Larraín, Paolo Sorrentino e Sebastián Lelio tra le firme di quelli che ho visto) ce n’è uno che riesce dove altri stentano a penetrare l’ovattatura creativa di questo tempo statico senza precedenti.
Facendo riferimento nel titolo a un singolare caso epidemico di impellenza compulsiva a danzare per strada, Strasbourg 1518 sottintende un’analogia tra lo stravagante episodio storico e la claustrofobica condizione attuale. Con i meschini mezzi domestici di tutti in questo periodo, Jonathan Glazer e Mica Levi si incontrano di nuovo dando alla luce un lavoro che convince e prende forza progressivamente facendo dell’isterismo collettivo un ipnotico spettacolo.
Il delirio e la dipendenza della vita in gabbia secondo il raro genio di chi riesce a mantenere vivo nel torpore il fuoco dell’inquietudine artistica.
Lo stato in cui sono. Qualche giorno fa ho iniziato a vedere una serie televisiva. Tristo, rabido, perduto, non ero dell’umore di dedicarmi ad altro. Del primo episodio non ho capito molto, ma essendomi il tema relativamente familiare—determinismo, libero arbitrio—ho attribuito la débâcle alla mia inesperienza in fatto di serie e deciso che sarei comunque andato oltre. Stoicamente, appunto. Il giorno successivo, cercando il secondo episodio, mi sono reso conto che quello che avevo visto non era il primo, ma l’ultimo. Devs di Alex Garland è un capitolo secondo—dopo Ex Machina—sul delirio di onnipotenza indotto dalla tecnologia e incoraggiato dalla diffusa tendenza a cercare messia tra le menti lungimiranti che la promuovono, la diffondono, oppure la vendono. La filosofia è l’esercizio del pensiero nella cui incoscienza l’arte beve e la vita si avvelena. Devs riesce a descrivere l’inevitabilità del dialogo tra filosofia e scienza, ma stenta a dargli un ruolo narrativo, lasciando piuttosto che sia la sua altra anima di thriller a condurre. Più convenzionale di quello che speravo, resta un’intrigante riflessione sulle distopie che la cultura contemporanea ingenuamente corteggia e, in qualsiasi ordine per sventura o proposito lo si finisca col vedere, il lavoro eccellente di un autore brillante, ferocemente affamato.