‘You might be wise, but I’m older. Let me make a call.’ Malinconico, nostalgico, faceto, al limite del grottesco, evocativamente soviet. The Other Side of Hope (Toivon tuolla puolen) sfugge agli aggettivi, brilla sopra le convenzioni. L’umorismo ironico e paradossale di Aki Kaurismäki mi è in qualche modo familiare. Le ombre realiste e i bagliori fiabeschi con cui fotografa temi drammatici come guerra, immigrazione, razzismo e musica country sono singolarmente sinergici e contagiosi.
Alle prime battute il pubblico si accigliò interrogativo. Poi si chiese se altro non fosse che una finnica, sgargiante presa per il culo, ma prima di convincersene l’effetto esilarante era entrato in circolo. La gente uscì dalla sala con un sorriso ebete, una serenità insensata, e qualche sasso in più nelle tasche.
Cape Fear era uno dei pochi film di Martin Scorsese che non avevo mai visto. L’avevo sempre evitato pensando che fosse quello che, almeno in superficie, ho avuto conferma essere—uno di quei thriller americani degli anni Novanta in cui il buono e il cattivo (ma non il brutto, condannato piuttosto dalla natura caduca del suo ruolo drammatico, e dalla sua stessa bruttezza, a una scomparsa precoce non compianta) si confrontano in una scena finale artificiosa, bizzarra, lunghissima, in cui il cattivo sembra morire innumerevoli volte prima di perire definitivamente con meritata sofferenza, ricostituendo così (chiedo scusa per la lunghezza della frase, ci sono quasi) l’indispensabile ordine morale che si era perduto. Ma è proprio vestendosi di questa pacifica conformità che Cape Fear insinua una sottile, acuta provocazione alle formule del genere cui fa omaggio e a quelle del decennio da cui proviene. Con un film che pare una personale deviazione artistica, Scorse racconta nuove sfumature sul tema a lui familiare del giudizio e della sentenza—quella che alimenta il conflitto nella storia e quella soprattutto che il pubblico è diabolicamente tentato a emettere nei confronti di ciascun personaggio.
Culminando con disarmante genio in una toccante glossolalia biblica, Cape Fear scuote la cupida inclinazione umana al processo sommario e la comune arroganza di ritenerlo un diritto—e interroga chi avesse la sensibilità di non nascondersi sul senso di giustizia occidentale che buona parte del cinema ancora abbraccia e contribuisce a promuovere. Sono davvero colpevoli quelli che infine muoiono? Sono davvero giusti quelli che sopravvivono?
In fondo alla soffitta, dove la coltre del tempo copre vecchie robe e una lampadina a incandescenza ronza colorandole di giallo, sta quell’angolo mai troppo remoto della nostra memoria letteraria e cinematografica che Knives Out va a rispolverare. Sulla genealogia di Benoit Blanc—nerboruto investigatore privato in tweed e sigaro dietro il cui inaspettato southern drawl brilla un formidabile Daniel Craig—si leggono i nomi celebri di Poirot, Colombo, persino Clouseau. Ma il cimento in un genere non certo nuovo per Rian Johnson, che proprio grazie a uno strepitoso noir trovò la prima meritata popolarità, non è il nostalgico esercizio di stile che si potrebbe temere. Sostenuto da un cast che dà prova d’essere molto più di una conveniente sfilata di celebrità, Knives Out allo stesso tempo omaggia e sfotte i suoi emeriti antenati trovando le giuste tinte per dare nuovo colore, il proprio, a un’eredità dimenticata dagli ultimi distratti decenni.
Dopo una lunga astinenza torno a vedere un film. Innamorandomene perdutamente. Non è solo perché tocca temi vicini alla mia personale esperienza che trovo l’ultimo lavoro di Joanna Hogg straordinario, ma perché The Souvenir è davvero una perla rara e riluce, oltre che della sua lattea materia, di un coro di interpretazioni profondamente ispirate—dalle voci soliste di Honor Swinton Byrne e Tom Burke all’eterea presenza di Tilda Swinton, e il pungente cammeo di Richard Ayoade.
Fa riflettere come The Souvenir, che proprio per i suoi dialoghi incanta, sia stato girato senza una sceneggiatura tradizionale, affidandosi al genio dell’improvvisazione e alla sensibilità della regista di guidarne il delicato equilibrio. E fa riflettere sul ruolo dello scrittore, su come gli attori possano diventare di fatto coautori, e il cinema artisticamente ancora più collettivo senza che ciò annacqui l’identità dell’opera.
È curioso, iniquo ed è normale che Joseph Losey sia giunto alla memoria contemporanea per la bellissima locandina del suo lavoro peggiore—Modesty Blaise—e non per i tanti meravigliosi di una lunga filmografia. Sua prima collaborazione con Harold Pinter, The Servant è una lanterna magica attorno a cui girano le forme di una struttura sociale ambigua, viziata, artefatta, proiettando dell’uomo che le appartiene un contorno senza viso. L’ironia dei personaggi di Pinter non sta nel non essere quello che sembrano, ma nell’essere soltanto quello, la loro apparenza. Il pubblico che ha giubilato per Parasite di Bong Joon-ho troverebbe in questo alcune immediate analogie, ma un viaggio ancora più oscuro e dantesco nelle perversioni sociali di cui siamo tutti celebrati autori e miserabili vittime.