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A Hard Rain

Sia chiaro, non lo so—ma immagino ci siano canzoni che hanno influenzato più di altre, e più dei libri, quello che scrivo e il modo in cui scrivo. Se cosi è—e se posso permettermi di supporre che per quanto acerbo, un modo di scrivere, ce l’abbia—allora A Hard Rain’s A-Gonna Fall è senz’altro una di quelle.
La versione che ascoltavo domenica tornando da Brighton—prima che i miei associati protestassero a sassate, sputi e mi manganellassero coi porri—è un live del 1983 in cui Joan Baez canta l’ultima strofa imitando Bob Dylan e in cui, verso la metà, il batterista sembra svegliarsi di soprassalto dal letargo. È un album cui sono particolarmente affezionato e che ascolto da quarant’anni, ma non è questo—A Hard Rain’s A-Gonna Fall è straordinaria qualsiasi registrazione si voglia ascoltare. Ed è straordinaria perché è straordinaria, non perché piace a me o a Joan Baez o alle persone che quella notte ululavano, e applaudivano, e poi piangevano.
In un’intervista di qualche anno fa, Dylan gracchiava dal naso un commento tanto incisivo quanto la sua penna.
‘Non so come facessi a scrivere in quel modo. Oggi non lo so più fare. Ho imparato a fare altro. In quelle parole c’era qualcosa di magico e penetrante. Non tutte le cose si può riuscire a fare per sempre.’ Che è un po’ come sentir dire al papa che non si può credere in Dio per tutta la vita. Ci penso spesso.
Ma tornando a Hard Rain—e a tante altre, perché non è certo l’unica—che fine hanno fatto queste canzoni? che fine hanno fatto quei testi? che fine ha fatto lo spirito di quella musica che ti prende per le palle, per la gola, che ti fa piangere di stupore, di gioia, di rabbia. Che fine abbiamo fatto noi?
Forse è la stessa triste sorte di cui sta soffrendo il cinema. Forse non si riesce a vedere nell’arte il portavoce di un sentimento comune perché si ha l’arroganza di dare alle necessità un carattere sempre più individuale. Forse perché ci si illude di poter parlare per sé, dimenticandosi che quando tutti parlano contemporaneamente si finisce inevitabilmente col non comunicare affatto, col dire tutti le stesse poche stronzate. Forse, ma non so neppure questo.
È però un fatto che la musica popolare contemporanea sia relegata essenzialmente a un ruolo di puro intrattenimento, ed è una mia vivida impressione che non riesca a intrattenere nessuno per davvero—un’incompetente in più in un tempo già affollato di persone che non sanno fare ciò per cui si vendono. È una musica che distrae per un poco e poi scompare—grazie al cielo, tutto sommato.
Quella in cui la decorazione è tutto ed è fine a sé stessa, in cui la bellezza di una donna si misura in chili di silicone e quella di un uomo in litri di steroidi, quella in cui si conta il valore di un film in numero di edifici distrutti con effetti speciali digitali e in cui i giovani non si drogano più per vivere, ma per morire—questa, è la definizione puntuale di un’epoca di decadenza.

 
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