Parlando di quella parte della mia esistenza che posso affrontare in società senza destare lo scandalo dei beghini e l’allarme degli ipertesi, mi trovo spesso a dover giustificare senza mai sapere come la ragione per cui non ho alcuna familiarità con molte indispensabili saghe degli anni Ottanta come Star Wars, Alien e Porky’s, e perché seguissi Tre cuori in affitto, i Jeffersons e Mary Tyler Moore invece di Star Trek e i Visitors. Se c’è un pilastro della cultura pop di quell’epoca che però non mi è mancato, è Indiana Jones. Io e mio fratello vedemmo Temple of Doom decine di volte. Cercammo di strapparci il cuore a vicenda digrignando i denti, sgranando gli occhi e invocando in sanscrito la dea Kali. Non ci riuscimmo nemmeno una volta.
Indiana Jones non ha semplicemente il cappello, la frusta da domatore di leoni e la camicia sudata—è asimmetrico. Un eroe sciatto e scaleno che non si stupisce di nulla, non soffre di attacchi di panico, ruba cose belle per soldi o perché, nelle sue parole, dovrebbero stare in un museo, è un riferimento irresistibile, non solo nostalgico, anche se viene da un immaginario ormai antiquato, tanto scarso di proteine e silicone. Insomma, Henry Walton Jones Junior è l’uomo o la donna che la filosofia tenta da millenni di aiutarci a essere.