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Ombrelli

Per un breve eccitante periodo, ebbi un account di Facebook. Non era già più una novità per nessuno, ma lo era per me. I miei tempi di reazione alla tecnologia sono meno che pachidermici.
Di quella moderna esperienza sociale ho poche memorie, nessuna delle quali vale la frazione di un aneddoto. Ricordo l’insolente pubblicazione di foto che nel nome della mia scarsa fotogenicità e oltraggioso narcisismo non avrei mai autorizzato. Ricordo la filosofia spiccia e scialba che rimbalzava da pagina a pagina nella forma di stronzate e buonismi anemici spacciando banalità di ogni sorta per indimenticabili saggezze. Ricordo tra queste l’immagine di un’anziana coppia romanticamente al riparo sotto lo stesso ombrello, sopra un testo che grossomodo recitava—il segreto della longevità del nostro matrimonio sta nel fatto che apparteniamo a una generazione che invece di buttare quello che non va, la ripara.
Cancellai l’account di Facebook all’istante, per sempre, ma quel pensiero giusto e mieloso e paternalisticamente salomonico, non si perse senza lasciare traccia. La riflessione che a distanza di anni riaffiorando desta, non ha nulla a che vedere con il divorzio—che non solo andrebbe incoraggiato, ma reso obbligatorio—ma riguarda gli ombrelli, quelli pieghevoli soprattutto.
L’oggetto che dovrebbe rappresentare lo stato dell’arte della meccanica di una civiltà è invece un arnese convincente solo all’acquisto, che non regge più di qualche modesto rovescio, e che aggiustare è impossibile intrinsecamente. Conosciamo tutti il loro triste destino. Le stecche si piegano, l’asta si spezza, la calotta si ribalta al primo alito di vento, e il velcro o il bottone a pressione che la tengono chiusa sono un’inutile presenza simbolica. Se sono invece di quelli che si aprono automaticamente con un pulsante, ci si aspetti che la molla possegga un’esuberanza largamente sproporzionata. La propulsione in sé, è in effetti l’unica parte di questa ingegnerizzata specie di ombrelli che non perde mai vigore. Che trasforma un oggetto innocuo in un ribelle rivoluzionario anarchico mosso da puro spirito eversivo invece che da un’ideologia. Che costringe a difendersi da ciò che, anche se da una cosa di poca offesa come la pioggia, è disegnato per proteggere. Che fa sembrare sfigato il più carismatico asceta, quando dimenandosi maldestramente senza aiuto nell’intemperie, cercasse di domare un ombrello che non si chiude, che non si apre, che si capovolge.
L’unico tipo che resiste al tempo e alla propria fallosa natura, è quello che viene perso sui mezzi pubblici. In ogni città c’è una rete torbida e clandestina di ombrelli passati di mano in mano perché dimenticati e trovati da altri sulla sedia di un bus, nella cappelliera di un treno, su una panchina in stazione. Sono anche i più brutti e inappropriati.
In questo periodo ne sto usando uno volgarmente floreale che sembra una tappezzeria provenzale nelle tinte del vomito. So che non si romperà mai. So che verrò seppellito in una fossa comune come le menti geniali di ogni epoca, accanto a un ombrello che aperto sembra la tazza di una turca in quel terribile limbo tra una defecata dissenterica e lo sciacquone divino. Lo ritroveranno intatto quando il primo pazzo verrà a dissotterrarmi, strapparmi il cuore e portarlo al bar del paese in un sacchetto di plastica per vincere una scommessa lanciata per scherzo da chi non sa che gli insani sono i soli a parlare sempre seriamente. Ma non verrò perciò ricordato come una persona senza gusto—perché chi come me non esiste su Facebook non è mai esistito.

 
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