Non vedo quale scandalo possa mai rappresentare la recente notizia che Warner abbia adottato l’approccio di cui Netflix fa orgoglioso uso dalla nascita—ovvero affidarsi a un sistema di intelligenza artificiale che elabora le preferenze degli utenti per plasmare convenientemente forma e contenuti delle nuove produzioni1. È sempre stata un’ossessione americana quella delle statistiche. È della stessa provenienza l’aver associato i termini studio e industria, echeggianti metodo e ripetizione rispettivamente, al luogo che da questa parte venne definito giusto un secolo fa settima arte.
A dispetto dell’immodesto, prematuro appellativo, un’intelligenza artificiale non è altro che il naturale passo avanti di una filosofia produttiva condannata dal peso della sua stessa struttura a privilegiare gli aspetti commerciali su quelli artistici.
È però vero che il sapore distopico dell’intrattenimento contemporaneo si faccia con questa nuova aberrazione ancora più denso e amarostico. Non è certo una flatulenza paternalistica ricordare che l’intuizione è irrazionale, la sorpresa un fattore non numerico, la risposta del pubblico imprevedibile—e che l’intelligenza di una macchina prevale solo quando quella umana viene meno. Perché gli algoritmi prevedono la vita nella sola misura in cui essa è vissuta prevedibilmente.
1.Warner Bros. Signs Deal for AI-Driven Film Management System, Tatiana Siegel, The Hollywood Reporter, 8th January 2020.