In un memorabile intervento di fine secolo, Susan Sontag1 denunciava il declino del cinema, la rassegnata disillusione di chi amandolo ne aveva permesso il fiorire, e ne auspicava una prossima rinascita per mano e cuore di una nuova, indispensabile generazione di appassionati. Una riflessione piena di rabbia, persino toccante, che Michael Koresky2 riprendeva recentemente a distanza di vent’anni, mosso da un’amarezza diversa, chiamando piuttosto all’unico modo l’uomo conosca per ribaltare le sorti avverse—la resistenza. Comunque si legga la storia del cinema e per quanto acume, profondità e lungimiranza guidino negli anni le penne degli osservatori migliori, le loro giuste grida, una considerazione generale resta. Non sembra esista una forma d’arte tanto dubbiosa di essere tale, tanto incerta sul suo ruolo, sulla la sua stessa natura, e così consistentemente convinta della precarietà della propria esistenza quanto il cinema—che nonostante tutto vive. Il viale del tramonto sul quale permanentemente ama pensare di essere, è una romantica finzione, una nostalgica indulgenza. Nelle parole di E. M. Forster, la storia avanza, ma l’arte è immobile.
1. Susan Sontag, The Decay of Cinema (The New York Times Magazine, February 25, 1996).
2. Michael Koresky, Not Buying It (Film Comment, February 25, 1996).