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The Age of Innocence

‘Personaggi noiosi di un’epoca triste,’ fu la risoluta conclusione di un articolo del Tribune1 con cui Heywood Broun, nel 1920, recensiva The Age of Innocence. Il mese successivo Broun tornava sul luogo del delitto con uno spirito diverso. ‘Qualche settimana fa avevo stupidamente definito il libro di Edith Wharton tedioso, anche se ben scritto. Mi rendo conto solo ora, essendo andato oltre, della sua acuta ironia, del suo sottile umorismo.’
Non ho mai letto The Age of Innocence. Del suo tedio o del suo acume conosco solo quanto sia rimasto nell’adattamento cinematografico di Scorsese, ma ciò che dell’aneddoto mi ha fatto alzare le sopracciglia è altro—la rettifica, il riconoscimento, l’ironia autodeprecativa. Quanti giornalisti contemporanei hanno il tempo, il modo, la volontà, ma soprattutto le palle di approfondire i propri commenti ed eventualmente cambiare idea? Quanti sopravvivono al proprio orgoglio e alla propria vanità, ma anche all’ansia da onniscienza, presenza e contenuto della parte commercialmente trainante del mercato editoriale? La critica non vive di frettolosi epitaffi, ma della sua caducità, della necessità di maturare, mutare, ripensarsi e dialogare—e come noi oggi, in un secolo che sembra più che mai scivolarci sotto il culo, del tempo per sbagliare.

1. ‘Heywood Broun, in the Tribune, was unmoved: What dull folk, what a dreary time! he wrote. [...] Late in November, Broun had second thoughts: Some weeks ago we made the stupid comment that Edith Wharton’s The Age of Innocence was dull, though finely done. Now we have gone further and are beginning to grasp the sly humor of the book.’ (Nicholson Baker, First blush. Some books from the year 1920, TLS 20th March 2020).

 
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