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Serpico

Durante una festa, Leslie presenta a Paco alcuni amici. Larry è un poeta, ma lavora per un’agenzia pubblicitaria. Sally è un’attrice, ma lavora per un fotografo. Finché Paco interviene, presentandosi a sua volta—sono un poliziotto, lavoro per il dipartimento di polizia. È una scena di Serpico a far riaffiorare un ricordo nemmeno remoto, e con esso una riflessione non autorizzata sull’idea di ruolo.
Fuori era Soho, ed era maggio, ma dentro era inverno. L’ufficio era buio, freddo, aveva l’odore di marmo e legno della sala d’aspetto di una stazione ferroviaria di paese. Quelle che non esistono più. Alla fine di un incontro riguardo a un lavoro che poi non feci, saltato in piedi più per la necessità di muovermi e scaldarmi che il desiderio di andarmene, venni ricacciato a sedere da una domanda inaspettata, la più inutile e intelligente che mi sia stata posta negli ultimi anni—tu, che cosa ti consideri?
Non siamo cento mila, nessuno, siamo uno. Né sono io allo stesso tempo artista e pagliaccio, sognatore in erba, sabbia oppure sterco. Perché tra queste facce, quelle ovvie che non scrivo e tante ancora che ho scordato o non conosco, solo una mi appartiene e solo una ci appartiene—una soltanto, forse da sempre, fino allo stremo.

 
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