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Djuna Barnes

Leggevo questa mattina che Djuna Barnes continuò a rivedere le sue poesie per anni dopo la prima pubblicazione. Un meticoloso lavoro di riscrittura che proseguì ben oltre il suo breve periodo di relativa fama, in un’età che pochi—nemmeno gli amici intimi, che da tempo la davano deceduta o impazzita—sanno raggiunse nella lucidità più febbrilmente produttiva.
Questo mi fa pensare a due cose, una delle quali è la metà di un ricordo. Il fascino di creare per un pubblico che non è mai vero non esista, ma è piuttosto un fantasma e ha dello stesso l’eterea presenza. E il meraviglioso trepidare dell’artista nel sospendere un dialogo, la sua totale incapacità di estinguere il fuoco che lo alimenta.
Traghettandosi in doppiopetto blu da un lato all’altro dell’aula della nave, con una mano in tasca e l’altra per aria a fare incantesimi sugli studenti, il mio professore di composizione architettonica ricordava spesso un aforisma che la mia memoria, probabilmente sbagliandosi, attribuisce a Gropius. Il processo creativo è solo il fermo immagine di un film non ancora finito, che non finirà.


 
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