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King Kong

Il ragazzo ossigenato alla cassa del supermercato mi chiede se ho un drago al collo e cosa ho fatto la sera prima. Ho visto un film, gli rispondo svuotando il contenuto del cesto, la sopravvivenza settimanale, sul rullo nero incalzante. Ho visto King Kong, quello di Peter Jackson. Quello vecchio, secondo il suo metro temporale.
Di tutte le bestie favolose che abitano le nebbie giurassiche dell’isola inesplorata, gli improvvisati avventurieri occidentali tribolano per portarsi via l’unica che nell’avanzo di mondo da cui provengono non è estinta. Non prendono l’uovo di un dinosauro, la larva di un insetto gigante, il seme di una pianta sconosciuta, l’indigeno sdentato dalla pelle color ruggine o la sua gioielleria di ossa, zanne e microcefali teschi. Rischiano la vita per rapire un gorilla, un animale ferito la cui unica anomalia è l’eccezionale stazza.
Tra il porro e l’avocado e i piselli surgelati, conveniamo che la romantica tragedia scimmiesca è qualcosa di più della banale predica sull’avida materialità del genere umano, la sua arroganza nei confronti della natura, la sua inguaribile pulsione all’inguaiarsi. È una critica feroce e sorprendentemente acuta alla sua mancanza di ambizioni, all’uomo che non vede oltre le sue lenti e preferisce possedere quanto già conosce piuttosto che recare altrove il suo sogno, e il suo successo.


 
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