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gente e strade

Wells Mews

Non ci passavo da tempo, e da tempo ignoravo i tanti ricordi che stanno scritti sulle pareti di questo insolito fiordo.
Lo trovo bene, come direi mentendo a un vecchio conoscente cui devo cortesia, non proprio riguardo. Calpestare il suo asfalto chiazzato di sputi e olio di motore è una sensazione più familiare che piacevole. Lo stesso pungente odore di urina stantia che per anni mi ha infettato le vie nasali ancora ne impregna i mattoni, le piastrelle, il ferro e nient’altro—perché altro non c’è.
Oltre ai resti personali di un futuro che mai fu e di uno che ancora non è, si affacciano su Wells Mews il retro di un hotel, il retro di un garage, il retro di un parrucchiere, quello di un sex shop e di un negozio di attrezzatura fotografica, quello di un’agenzia di viaggi araba e di una misteriosa tessitura orientale priva di vie d’accesso. Wells Mews non è un luogo ameno. Non mi stupiva allora che tutti gli dessero il culo. Non mi stupisce ora.
Quanti anni sono passati, mi chiedo senza prestarmi attenzione. Non sono poi molti. Ma è quanto basta perché siano sparite le biciclette che a quest’ora del giorno tappezzavano le inferiate degli interrati. Le trovavo pittoresche, avrei dovuto fotografarle fin che c’erano. Procrastinare. Procrastinare. Nemmeno le biciclette appese ai muri sono eterne. Ciò che invece è rimasto di quel minimo andirivieni di facce note su corpi stanchi, è la scarsa fauna di immortali che senza pretese ancora popola il sudicio gomito cittadino. Sono gli occasionali balordi di strada, qualche gabbiano depresso, e i fumatori rassegnati che gobbi e furtivi vi compaiono dal nulla a consumare pensieri indegni.
Riconosco poi la mia finestra al primo piano, quella alla quale bevevo tè lasciandomi ipnotizzare dall’eccentricità discreta di un curioso individuo.
Con malinconica disinvoltura, camminava avanti e indietro nel retto del vicolo immerso in una lunga e verbosa telefonata che avevo deciso essere di lavoro. Perfettamente a suo agio, vagava nell’orrido antro come fosse il soggiorno di casa sua, facendo sentire me quello che indubbiamente ero—un intruso.
A rendere ancora più irresistibile la sua esibizione erano la rigorosa immutabilità nel tempo del gesto e l’ossessiva, paranoica precisione dell’esecuzione. Dalla mattina alla sera, tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell’anno, la stessa inesauribile telefonata lo guidava su e giù per Wells Mews lungo rotaie sempre più lucide.
Aveva certamente superato i trenta, forse di poco i quaranta. Riccio e rossastro, alto e longilineo, dinoccolato non atletico, si lasciava condurre da una falcata lenta e fiaccamente cadenzata. Le lunghe gambe dritte parevano appese alle anche come pendoli di un orologio—un passo dell’oca mesto e grave. Il filo degli auricolari si adagiava casualmente sulla camicia azzurra e su un completo scuro stufo d’essere indossato e portato in modo tanto distratto da rasentare lo sciatto. La sua terra era la mia stessa luna grigia, dove la gravità è maggiore.
Andavano in direzione opposta solo il fumo di una tazza di caffè e quello di una sigaretta, che solitari e dimenticati quanto lui, salivano intrecciandosi fino a smarrirsi nel bianco.
Mi chiedo a quale occupazione potessero mai essere tanto confacenti le esalazioni di piscio di Wells Mews da preferirle a un ufficio tradizionale. Mi ero trovato più di una volta a un passo dal chiederglielo, ma una strana creanza mi aveva sempre trattenuto dal compiere la folle aggressione.
Invece no, non è per quello che non mi feci mai avanti, mi rendo conto oggi sbucando infine dall’immondo tratto di intestino urbano—non me fregava niente, perché di lui sapevo già tutto.


 
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Tenpin Bowling

Quando esco di casa con intenzioni sbagliate, passo da un parco pieno di scoiattoli che mangiano ghiande. Il pigro umano appressarsi non li inquieta, né li distrae la mia isterica marcia. Sono forse abituati, oppure sanno che a quell’ora non ho fame. Sul bus c’è un signore che parla da solo. Dovrei dispiacermi del suo anomalo farfugliare, ma è il più sereno dei passeggeri—perché rattristarmene. Di fronte alla stazione di Finsbury Park torreggia un edificio in mattoni rossi ostentante la dicitura biblica TENPIN BOWLING, POOL, MUSIC & DANCE, LATE BARS. Ai suoi piedi, una donna in avanzato stato di maturità fisica, predica con fervore e vende per caso riviste su Dio. Una giovane coi capelli bagnati e lo zainetto asciutto le rivolge una parola che viene ignorata. Io intanto ordino un americano a una barista sovrappeso con la criniera ossigenata. Mi dice che assomiglio a un attore di cui non ricorda il nome. Scappo prima che le venga in mente perché l’ultima volta che mi sono trovato gratuitamente oggetto di un paragone promettente, fu una delusione dalla quale non mi sono mai ripreso. Di nuovo in superficie a Warren Street, una ragazza a forma di matriosca chiede l’elemosina. Sta accovacciata per terra. Ha il viso perlato e gli occhi più azzurri. Le chiedo quanti anni ha, ma non parla la mia lingua. Non gliene do più di venti, spero che le bastino. Poi le lascio il poco soldo che ho con me, ma lei non se ne accorge. Passo per Fitzroy Square e sbircio senza motivo o aspettative dentro il palazzo dove Woodcock vive, lavora e beve tè—oppure per la via parallela, dove un capannello di brava gente ipocalorica in cardigan di lanetta prega davanti a una clinica che pratica aborti. Superato il barbiere smilzo col cappellino da ciclista, sono quasi giunto a destinazione. La maestosa falcata sbiadisce e muore davanti al vetro della porta d’ingresso. In essa mi intravedo—un riflesso o un miraggio. Evito l’ascensore perché è un lento montacarichi, perché mi fa sentire un carico, e perché al suo interno, quella che fu aria, sa di orrore e grande schifo. Salgo ciondolando, rischiando un passo sì e uno no di finire nella tromba delle scale. In quel momento mi ricordo che vorrei essere in campo, strappare un ciuffo di erba da terra e darlo al vento per vedere in che direzione tira. Ma qui non si muove nulla e c’è troppo rumore—ed è tutto ciò che si sente.


 
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Santa Maria Maggiore

Avevo ancora qualche ora prima che il treno per l’aeroporto partisse. Di strada verso Termini, avevo deciso di scalare l’Esquilino. Non entravo in Santa Maria Maggiore da trent’anni, se mai vi ero stato quando coi miei, ad agosto, passavo da Roma sulla via del mare.
Ai piedi della scalinata che sale verso l’ingresso della basilica trovo un baldacchino bianco. Non si tratta di un mercatino rionale, di una raccolta di firme, o della festa del libro, ma della presenza ben più allarmante dei controlli di sicurezza. D’altro canto—riconosco con apprensione—l’eternità di questa città non è più un prodigio. Va guadagnata giorno dopo giorno, protetta con le mani, e con le cose brutte come questa invadente distopia aeroportuale.
Con quel dimenticato misto di giusto e fastidio che si provava andando a messa la domenica, mi preparo all’ispezione, ma la donna in uniforme decide che il mio muso pallido da forestiero non è quello di un fanatico integralista o di un vandalo, e non curandosi della valigia che mi porto appresso—che per quello che ne sa lei potrebbe nascondere un ordigno bellico inesploso, due fiaschi di gas nervino, il corpo smembrato di un nano, o una partita difettosa di fuochi d’artificio—mi risparmia l’umiliazione e mi fa passare.
Una volta dentro, la fresca atmosfera di pietra, cera, e legno mi leva giugno dalla pelle calda. Mentre avanzo cigolando sul lucido marmo, riflettendo senza troppa partecipazione su come i banchi di chiesa abbiano incredibilmente lo stesso odore in tutto il mondo, sono raggiunto e superato da una delegazione di tre sacerdoti che con un drappeggiante passo dell’oca infilano spediti la navata centrale.
Quello al centro con la pelle bronzea e la tonaca scura, sembra fare l’andatura. Due clerici pallidi e ingobbiti la cui stanca pomposità lo fanno sembrare ancora più aitante, lo spalleggiano. Giunti all’altezza dell’altare, il giovane compadre si ferma sull’esatta mediana, e compiendo un movimento ampio e atletico quanto l’inchino di un’artista olimpica, sfoggia il più magnifico segno della croce che si sia mai visto. Uno dei due anziani gregari lo segue interpretando lo stesso gesto con la sbrigativa praticità di una fede più matura. È poi il turno del terzo, che estraendo un fazzoletto grande quanto un mantello da sotto la tonaca, esplode in un preistorico starnuto, e osservando una ritualità in effetti eucaristica, si dà senza fretta a una spernacchiante speleologia nasale. Tutto ciò, senza degnare Cristo inchiodato del minimo cenno.
Certi che l’umido fardello sia stato riposto, il trio si rimette quindi in viaggio con la stesso compatta, silenziosa andatura. E così io. Roma, la Chiesa e l’Uomo, penso vedendoli svolazzare via. Che meraviglia.


 
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The Casual Vacancy

È un’aria gelida e irritante quella che soffia oggi da dentro la stazione facendone un mostruoso mantice di ceramica e ferro. È un’aria prepotente e attaccabrighe che sussurra allarmanti avvertimenti danteschi. G mi sta accanto ma non so dove sia. Sono momenti privati e solitari. Non ci si vede. Non ci si aiuta. Avanti tutta. Ignoro, e non vorrei, il venditore di riviste in cima alla prima rampa. È l’unico possibile testimone al mio presente disagio. Dovrei considerarlo un alleato, un parente, un confessore, ma ne faccio un momentaneo capro espiatorio. Il piacere esotico dell’essere ingiusto e l’effimera soddisfazione di una rivalsa fasulla su ignoti o innocenti.
Si scende perché si deve, perché è facile pensare di non aver scelta, perché tutto ciò che è facile, tutto sommato, non dispiace. Le polverose raffiche da congiuntivite proseguono con ostinazione senza prendere o dar fiato. Acquistano vigore con la profondità, gradino dopo gradino. L’atrio della biglietteria è un’atroce galleria del vento. L’attraverso con il coraggio invisibile di tutti e ingobbito dal freddo mi tuffo ad ariete nel tunnel delle scale mobili. È il tratto finale che porta ai binari, il più lungo e temuto, dove le folate aggrediscono con l’impeto maggiore, dove la fastidiosa codardia dello schiavo riluce, per qualche glorioso attimo, di una certa audacia. Ma è anche peggio. Oggi le scale mobili non funzionano. Sto zitto e procedo a piedi con un acuto lirico di cristodìo interiore.
Sono mille minuscoli gradini. Si scende nella tormenta sgambettando come ragnetti. È tardi e la corrente lo sa. Mi frena, mi spinge indietro, verso l’alto, fuori dalla stazione. Mi legge dentro. Cerca di farmi capire ciò che ben so e che continuo a ignorare. Arrivo in fondo senza essermi rotto l’osso del collo. Ne prendo atto con un malinconico senso d’orgoglio. La fretta uccide, ma G non è ancora vedova. L’aria mi da un’ultima distratta percossa, poi si placa. Qui sotto ha l’odore del ferro, ed il suo peso. Una moltitudine di copri umani in movimento scarso, minacciosa composizione distopica, sono ora di fronte a me. Una donna piange, chi le sta accanto la schiaffeggia. Il vecchio predice un futuro sbagliato. Un infante chiede vino. Ratti. Sono tutti in cerca di una purificazione che non otterranno. Come noi, stanno andando a lavorare.
Quand’è così tornerei immediatamente a casa o mi incamminerei verso Soho a piedi, offeso. Ma il perdono che come tutti inspiegabilmente cerco è un inganno che già confonde il mio molle istinto sovversivo. Il treno arriva, mi incuneo nella carne. L’odore torrido di cavolo bollito e cipolla mal digerita di cui il vagone è pervaso sono un’adeguata punizione al mio vile conformismo. Qui ci ritroviamo, tapini e uniti. E con un sorriso senza senso ci guardiamo, ci riconosciamo. Ce l’abbiamo fatta.
Con meravigliosa destrezza G estrae una rivista dalla borsa. Fedele alla testata, Stylist tratta esaustivamente di abbigliamento, moda, tendenze, celebrità, libri, arte, architettura, teatro, musica, cinema, storia, preistoria, scienza, medicina, maternità, silicone, gastronomia, ristoranti, locali e vacanze. Appollaiato alle sue spalle, partecipo alla lettura con sonnecchiati cenni di consenso, smorfie di disapprovazione o richieste specifiche del tipo, ‘Aspetta—’ oppure, ‘Gira—’
Spiaccicata attorno a noi sta una vivace brigata di ragazze in uniforme artica da turista mediterraneo avventuratosi al nord. Quando ci soffermiamo su un articolo che recensisce l’ultimo libro di J. K. Rowling, The Casual Vacancy, la capobanda prende posto con me in piccionaia e si unisce accigliata alla lettura. Con la coda dell’occhio vedo le sue pupille scatenarsi impazienti e bramose per la pagina. Temo che le schizzino fuori andando perse per sempre nella folla, ma fortunatamente non succede. Una possibile difficoltà con la lingua inglese le tende il viso crepando la guaina di cosmetici nauseabondi e alimentando una giusta apprensione nel gruppo. Con voce rotta e gradevole cadenza campana ci chiede finalmente, ‘È un nuovo libro di quella di Harry Potter?’ È il mio momento, ma i riflessi della prima ora sono ancora torpidi e non trovo lo slancio per rispondere. G interviene più tempestiva e socievole accompagnando alla conferma un sorriso e qualche commento di circostanza. Tra le amiche è immediato parapiglia. Il volto di lei è l’orgasmo di una vergine. I polmoni le si riempiono di un respiro che fa sembrare il Vesuvio esploderle in petto, ‘Mado’ se lo sa Antonio!’
In quell’istante l’omino nascosto nel controsoffitto del vagone chiama la nostra fermata e senza salutare scendiamo come molti, strappati al treno dal mandriano immaginario. Torno in superficie più disteso di quando mi ero immerso. Cammino verso l’ufficio sorridendo al pensiero di questo spiraglio partenopeo nel grigio quotidiano. E spero che Antonio non lo venga mai a sapere.


 
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