—ac
primapagina_squarespace_thumb_dysnomia.jpg

prima pagina

Natale

Natale è la festa prima della quale la gente sente il bisogno irrefrenabile di salutarsi. Nel nome di questa ambiziosa sfida si prendono così quei mille impegni sociali in due settimane che pur di fronte all’evidente impossibilità, per qualche atavica pulsione civile, non si resiste dal cercare e a stento si osa disdire. Si aspetta quindi fino all’ultimo, sperando che uno dei due ceda e si ritiri. Perché qualcuno crolla sempre, solitamente il più forte, essendo questo l’unico tipo di competizione estrema non violenta in cui è il più debole a manifestare la maggior tenacia. A quel punto sarà una esplosione orgasmica di reciproca, ma taciuta, riconoscenza. Ci si scambieranno per adrenalina auguri eccessivi, gonfiati dal sollievo più genuino per la decaduta incombenza. Poi finalmente si pronuncerà la frase più importante, quella che autorizzerà le due parti a ignorarsi senza dispiacere alla coscienza fino al dicembre successivo—facciamo con calma dopo le feste.


 
—ac
A Hard Rain

Sia chiaro, non lo so—ma immagino ci siano canzoni che hanno influenzato più di altre, e più dei libri, quello che scrivo e il modo in cui scrivo. Se cosi è—e se posso permettermi di supporre che per quanto acerbo, un modo di scrivere, ce l’abbia—allora A Hard Rain’s A-Gonna Fall è senz’altro una di quelle.
La versione che ascoltavo domenica tornando da Brighton—prima che i miei associati protestassero a sassate, sputi e mi manganellassero coi porri—è un live del 1983 in cui Joan Baez canta l’ultima strofa imitando Bob Dylan e in cui, verso la metà, il batterista sembra svegliarsi di soprassalto dal letargo. È un album cui sono particolarmente affezionato e che ascolto da quarant’anni, ma non è questo—A Hard Rain’s A-Gonna Fall è straordinaria qualsiasi registrazione si voglia ascoltare. Ed è straordinaria perché è straordinaria, non perché piace a me o a Joan Baez o alle persone che quella notte ululavano, e applaudivano, e poi piangevano.
In un’intervista di qualche anno fa, Dylan gracchiava dal naso un commento tanto incisivo quanto la sua penna.
‘Non so come facessi a scrivere in quel modo. Oggi non lo so più fare. Ho imparato a fare altro. In quelle parole c’era qualcosa di magico e penetrante. Non tutte le cose si può riuscire a fare per sempre.’ Che è un po’ come sentir dire al papa che non si può credere in Dio per tutta la vita. Ci penso spesso.
Ma tornando a Hard Rain—e a tante altre, perché non è certo l’unica—che fine hanno fatto queste canzoni? che fine hanno fatto quei testi? che fine ha fatto lo spirito di quella musica che ti prende per le palle, per la gola, che ti fa piangere di stupore, di gioia, di rabbia. Che fine abbiamo fatto noi?
Forse è la stessa triste sorte di cui sta soffrendo il cinema. Forse non si riesce a vedere nell’arte il portavoce di un sentimento comune perché si ha l’arroganza di dare alle necessità un carattere sempre più individuale. Forse perché ci si illude di poter parlare per sé, dimenticandosi che quando tutti parlano contemporaneamente si finisce inevitabilmente col non comunicare affatto, col dire tutti le stesse poche stronzate. Forse, ma non so neppure questo.
È però un fatto che la musica popolare contemporanea sia relegata essenzialmente a un ruolo di puro intrattenimento, ed è una mia vivida impressione che non riesca a intrattenere nessuno per davvero—un’incompetente in più in un tempo già affollato di persone che non sanno fare ciò per cui si vendono. È una musica che distrae per un poco e poi scompare—grazie al cielo, tutto sommato.
Quella in cui la decorazione è tutto ed è fine a sé stessa, in cui la bellezza di una donna si misura in chili di silicone e quella di un uomo in litri di steroidi, quella in cui si conta il valore di un film in numero di edifici distrutti con effetti speciali digitali e in cui i giovani non si drogano più per vivere, ma per morire—questa, è la definizione puntuale di un’epoca di decadenza.


 
—ac
VR/AR

La realtà virtuale è di fatto una forma di schizofrenia artificialmente indotta. Quella aumentata, una semplice disgrazia lessicale. La febbre da digitale sta arrivando progressivamente all’apogeo predetto da quasi un secolo di letteratura, gufi e fantasie distopiche. Gli idioti penseranno di dover tornare indietro. Li chiameremo saggi, poi li metteremo alla gogna. Ci comporteremo come bambini e finalmente urleremo, sottovoce e di nascosto, e senza piangere per risparmiare. Parleremo di equilibrio come fosse il nuovo ordine da costituire, ma per nostra astrale fortuna non lo troveremo mai. Ci convinceremo piuttosto di averlo appena lambito, muovendoci a passo scomposto e con la solita furia verso la prossima aberrazione. Barcolleremo con intento scambiandoci espressioni bianche, supplicando compassione e comprensione. Proveremo a contare le rughe specchiandoci nelle lacrime di chi ci sta di fronte. Non ne vedremo alcuna. Atterriti ci volteremo a cercare l’unica cosa che abbiamo sempre creduto di avere, il futuro. E prendendolo con tutta la rabbia che ci sarà rimasta in corpo, avanzeremo, arretreremo, di nuovo avanzeremo. Farà male, ma non l’ammetteremo mai—che una parte fondamentale del progresso consiste nello stupro delle buone idee, e che è spesso la passione malata per le infette a proteggere quelle migliori. Proprio come nelle favole della buona notte.


 
—ac