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gente e strade

Naso di ferro

Questi due individui oltre la finestra dall’altra parte della strada sono alti, dinoccolati e denutriti. Seduti sui gradini a scacchi di un portone, sono immersi anima e corpo in una vivace conversazione. Quello col naso di ferro avvalora le sue ipotesi aggiustandosi la coppola ad ogni asserzione. Quello con le sopracciglia folte, spostando le stampelle all’altro fianco, poi rimettendole dov’erano prima. Il loro gesticolare è sincero, indifferente al passaggio perpetuo di viandanti e mangiafuoco. La loro verità ha il peso assassino della città. È la musica che non si sente, la voce dei matti che hanno ragione. Poi uno si alza e si allontana. Non saluta, non importa, tornerà. Torniamo tutti. Rimasto solo, lo zoppo muove i trampoli ancora una volta, si accende una sigaretta, si passa la mano nera sulla coccia rasa, e sputa. Troppo da fare, da dire. Troppo poco tempo.


 
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Ambra e smeraldo

Sto camminando stralunato verso casa con i soliti pensieri immorali nello stomaco quando noto venire, nella direzione opposta, un’altra faccia ovale da fine giornata—la sua, a differenza della mia, sopra un drappeggio color ambra e verde smeraldo.
La vedo meglio, si tratta di una donna lenta e giusta che stimo avere una ventina d’anni più di me. Probabilmente è mia coetanea. Venendoci incontro scambiamo lo sguardo distratto di due viaggianti che verificano la reciproca conoscenza. Negativo, ma lei non sembra smettere di fissarmi, e quando siamo vicini abbastanza da convincermene, l’ambiguo feticismo si fa voce in un cordiale e sorridente, ‘buona serata.’
Toccato nel mio sordo altrove tradisco lo smarrimento, e mancando la destrezza di mostrare altrettanti denti, posso solo uno striminzito, quasi afono, ‘anche a lei.’
Ci diamo le spalle da meno di un passo e l’incontro è già un ricordo surreale. Non so chi sia. Non l’ho mai vista. Non è mai esistita. Ma che sia lei pazza o io stordito, il suo garbo antico e alieno non mi attraversa senza lasciare un segno—come una carezza amorevole mi sfiora, e assolve il mondo dei suoi peccati.


 
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Tate Modern

Sull’erba della Tate Modern con un’amica e l’artista che per sangue mi è più vicina, ho guardato il prato davanti alla galleria e la gente sparsa su di esso a gruppetti equidistanti di due o di tre. Ho pensato e detto, che belli che sono.
Seduti a terra come il bue e l’asinello e il bambino in mezzo, abbiamo parlato come si fa, guardandosi negli occhi come si deve. Una sua riflessione mi ha sorpreso, ma non mi ha sorpreso affatto, per quanto mia m’è parso che fosse—gli artisti lavorano per essere pronti, pronti per quello che non conoscono, non sanno se vogliono e se verrà.
Ma sulle ossa di gomito e chiappe la terra è comoda per poco ancora e quel pensiero con me si leva, oltre le betulle dove il fiume è largo, e non permette di certo che gli si veda il fondo.


 
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Wood Green

Pesanti come il ferro di cui odorano e l’umore da condannati a morte, le figure in divisa nell’atrio della biglietteria di Wood Green hanno mole mastina e ceffo da monatti.
Fuori dalla stazione, quando è tardi ed è buio, ci stanno i drogati, gli spacciatori, quelli che gridano, sputano, e le donnacce. Quelli coi denti marci e quelli senza, gli accoltellatori non professionisti, ubriachi o sobri. E ci sto io, qualche volta, ignorando quale di questi talenti sia anche il mio.
A questa atmosfera densa di urbe malsana senza data, a questa coltre infetta e disgraziata di alito umano, di aceto scaduto e pesce fritto, offre il contrasto più inaspettato la musica che qui, solo a questa fermata tra quelle che conosco, fa da sottofondo. Musica classica. Musica rinascimentale, barocca o romantica, ad alto volume. Una benedizione laica che non santifica, ma che da un vivido senso di apocalisse. È il genio dell’uomo, il suo odore, e il suo inossidabile sopravvivere.


 
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Kentish Town

Una bella coppia sovrappeso sta ai piedi delle scale che dalla pensilina conducono alla stazione di Kentish Town. Non sono sposati, ma sono giovani. Hanno meno di quindici anni per chiappa. Tra di loro un passeggino, e nel passeggino un figlio biondo e piccolo da crescere bene. Si organizzano per affrontare la rampa. Discutono la posizione migliore provandone diverse, le più stravaganti, le meno ispirate, ma nessun ingegnarsi sembra avere successo. Le braccia cadono ai fianchi. Gli sguardi si incontrano sconsolati e un treno fischia senza pietà sopra il silenzio della sconfitta. E mentre tutto è lento, e stanco, e fermo si scalda al sole di mezzogiorno, i due scoppiano in un’indomabile risata. E così li lascio, tra le lacrime, a una domenica dolce e urbana di un maggio che finalmente ha il sapore di maggio.


 
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