Esco dalla stazione più fredda della città che è già buio da un pezzo. Sono determinato a percorrere a piedi l’ultimo tratto di strada. Mi rallenta l’incalzare ovattato del jazz proveniente dal pub all’angolo. Il collo del basso si agita gobbo dietro la finestra, ma sono troppo stanco ed è troppo tardi.
Mi sorpassa un bus con lo slancio delle ore nere. La fermata è a una cinquantina di metri sull’altro lato della strada, ma non ho la minima intenzione di tradire i miei solitari propositi notturni mettendomi a correre per prenderlo. Lo vedo fermarsi mentre attraverso Muswell Hill Road. I pochi grigi in attesa rispondono al familiare peto della porta che si apre muovendosi verso di essa con il fiacco oscillare dei birilli che stanno sempre in piedi.
Il marciapiede è finalmente vuoto, meno che della mia dubbia presenza. Certo che il bus ripartirà a momenti, procedo la mia marcia senza fretta, ma tutto è fermo. Tace anche il vento.
Quando sono abbastanza vicino da pensare che l’autista possa vedermi nello specchio retrovisore, il suo indugiare mi convince che stia aspettando proprio me. Merda.
Con un brio che non so dove sia riuscito a recuperare, accenno una finta corsetta da adulto, balzo in carrozza e lo ringrazio per avermi obbligato a fare quello che non volevo. Lui mi saluta con un sorriso caldo e sbieco, e una fessura di occhi che del mio muso senza espressione non ha dovuto capire niente perché già sapeva tutto.
Caro sconosciuto conducente, il tuo indesiderato riguardo, lo ammetto, è il colore che mancava a questa giornata incompiuta di randagi morenti e di cristi senza corona.
Indossa anfibi più pesanti di lei e una tuta mimetica nobilmente scollata. Una larga cintura zebrata le stringe la vita. È truccata come Marilyn Monroe, e di Marilyn ha la luce, la pelle lattea e il piccolo neo a sinistra delle labbra, rosse e incandescenti. I riccioli d’oro spuntano dal foulard color cipria che le incornicia il viso. Un cappellino nero da baseball le copre il capo. Su quest’ultimo, la scritta SINNER, ma non ci credo nemmeno per un istante.
I riflessi iridati dei lunghi pendenti le sfiorano le guance appena rosate mentre in un solo gesto felino si siede, fa scivolare l’enorme borsa dorata in grembo, ne estrae un libro, e reggendolo a due mani come farebbe una bambina, quasi abbracciandolo, vi si immerge. Non leggo il titolo, ma intravedo una parola sul dorso, FASHION. Ciò che le sta attorno scompare, se mai è esistito. La mia nuova amica sorride con tutto il corpo. Sorride dei sogni sospesi in quel tempo inafferrabile non ancora consumato dal desiderio. E io sorrido con lei, abbassando gli occhi sul mio.
Il giorno del funerale di mia nonna mi ritrovai per un momento solo con mio nonno vicino alla bara. Mio nonno paterno era un uomo dolce, sensibile, forte e cazzuto, ma quel giorno era altro. Era gobbo e distrutto, come sarebbe stato per tutto l’anno a venire—suo ultimo.
Nella penombra della sala che aveva sempre avuto il colore delle feste e il suono dei bicchieri che si baciano, alzò il capo all’improvviso e mi disse, ‘Chissà se la nonna ci sta sentendo.’ Nessuno stava parlando, non c’era nulla da sentire, ma capii fin troppo bene la sua preoccupazione e presi tempo.
Volevo essere sincero a costo di risultare brutale e inopportuno. Era il minimo che potessi fare per mio nonno, e per me. Ma qualsiasi fu la mia risposta, lui aveva già deciso per tutti e due. ‘No, la nonna è morta.’
Tacqui. Fu un silenzio difficile, ma inevitabile. La stanza era diventata ancora più vuota. Non c’ero più io, non c’era più il nonno, e non c’era la nonna. Liberato dal peso di dover condividere le mie scemenze, continuai a riflettere per qualche minuto. Poi altri vennero, uscii a respirare una primavera tanto calda e smargiassa da confondersi con l’estate. Da allora, a cosa sia l’anima, non ho più pensato.
Entrano un uomo e un cane. Sono difficili da distinguere. Uno è un piccoletto dal pelo tanto e ispido. L’altro, un cubo tarchio e irrequieto dal manto scuro e la saliva densa. Sembrano usciti da un nuraghe. Il primo mi si piazza di fianco come un ceppo secolare, mentre il secondo, sempre più nervoso, si guarda in giro decidendo chi sarà il primo ad ammazzare.
Deprivato della volontà dall’ora, sento l’odore del mio destino pungere. Sa dell’ascella di un cane o del suo padrone. E con una dignità per cui non verrò dimenticato, smetto di leggere e aspetto il momento in cui ringhio mi azzannerà un polpaccio.
Invece no. Con le natiche contratte al pensiero delle mie ossa sgretolarsi nelle orribili ganasce, vedo la sanguinaria creatura accucciarsi ai piedi di sapiens e di colpo acquietarsi. Il suo muso non più teso che ora scalda la gommaccia umida del vagone non è quello di una macchina mortale, ma di un animale spaventato che guarda in sù.
Quando incrocio il suo sguardo mi accorgo istantaneamente di non aver mai dimenticato quello del mio Cando. Sono gli stessi occhi marroni e interrogativi. Non l’ho mai cagato abbastanza. O forse no, forse era lui a non cagare me. Ero piccolo con gli stivali gialli di gomma anche ad agosto, e se è la nostalgia a inquinare i ricordi, lascio che faccia. Ma a una cosa devo credere, che ci siamo guardati negli occhi abbastanza spesso e a lungo da non averli dimenticati, da non esserci mai persi.
Venerdì sera con lo stomaco e la testa vuoti da qualche parte sotto Camden Town, mi piace pensare che sia stato così.
Oggi in treno c’è anche un ragno—nemmeno tanto piccolo, per quello che posso stimare da dietro le lenti.
Non ha zaino, borsa o cartella. Non sta andando a lavorare. Questa è la linea che arriva fino all’aeroporto, ma non ha valige. Non sta nemmeno partendo. In effetti, è completamente nudo, e con estrema disinvoltura.
Sta cercando senza successo di risalire il battiscopa concavo e gommato del vagone. Arriva senza problemi fino a metà dell’arco, poi scivola giù, all’indietro, tornando esattamente dove era partito. Non ho mai visto un ragno tanto rimbecillito. Forse sta smaltendo una sbronza. Forse è sbronzo.
Ci riprova. Forse questa volta ce la fa. Niente. Tutto da capo, ma non si arrende. Non sembra nemmeno porsi il problema. In nessuna delle otto zampe riesco a leggere il minimo cenno di una possibile ragnosa imprecazione. Il ciclo si ripete invariato, come stabile pare essere il suo stato emotivo. Non si incazza, non si scoraggia, non cerca una via meno ardua.
Quanto vive un ragno—trecento anni come le sequoie, gli elefanti, le vedove e i preti? Non penso proprio. Eppure ecco, nella sua breve esistenza, il mio giovane Sisifo dal pelo rado ha già imparato molto più di me.
O forse sono proprio come lui. La metà degli occhi, miopi il doppio, avanti e indietro sulla stessa ferrata da un terzo di una vita senza essere andato da nessuna parte, senza sentirne il peso e senza intenzione di cercare alternative. Schiacceranno pure me.