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gente e strade

Gatti di Fitzrovia

Domenica mattina bianca e vuota al di là di una finestra su Fitzrovia. Entra quello stempiato con il codino tinto assieme al compadre livido di peli scuri e barba sfatta. Si siedono al tavolo accanto al mio con la pancia pesante, la camicia fuori e un fare mitico. Ordinano due caffè per lavare le voci roche e i sorrisi cariati. Sono gatti veraci di Spaccanapoli. Non capisco cosa dicano nemmeno quando ridono, ma è quanto basta perché il poco cielo che da quest’angolo vedo si faccia azzurro in coppa ai mattoni e in culo ai ladri che dicevano piogga.


 
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Gli occhi azzurri

Il re tiene gli occhi azzurri, la barba nera e i capelli pochi, unti e bene acconciati. Il suo pasto dura il tempo che ci vuole a mangiare le portate della lista e quelle speciali che il cuoco solo a lui gli garantisce. E quando tutti sono al mare a fare un cazzo, lui si sdraia forte, pieno e molosso a sudare i muscoli e le tempie. A fare quello che lui sa e gli altri no. Governare giusto, senza scassare.


 
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Madonnina al porto

Quando al porto le luci si spengono le candele sono già tutte accese. Chi tira il collo in punta di piedi, chi si chiede dove emergerà, chi giura di aver visto l’acqua muoversi oppure pensa, che meraviglia i carabinieri in divisa.
Poi finalmente bianca e azzurra e piena di grazia sale dal mare in mezzo alla barche, alle corde e alle catene. Il vecchio pescatore si fa il segno della croce. Il signore che non prega quasi piange e la mamma sussurra al suo bimbetto, vedi la madonnina.
Quanto sono sole le persone quando ringraziano la fortuna. Quanto simili e belle quando stanno in piedi dietro una lanterna di carta colorata.


 
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Pippo

Entra alle nove in punto con la falcata che tutti sanno, meno gagliarda di come la ricordino. I suoi commensali lo precedono di poco secondo una danza che pare ogni giorno meno casuale. Seduta al suo fianco gli legge la carta sottovoce mentre la sala si domanda chi lei sia. Fissando dalla montatura quadrata lo stesso punto della tovaglia della sera prima, ascolta chino e immobile la lista finché con un cenno del capo sancisce laconico il compimento del rito, e quindi l’ordine. Gli altri si alzano per il tavolo degli antipasti mentre sistemando il tovagliolo nella scollatura dell’enorme camicia di lino comanda un calice di rosso. Solo al tavolo per qualche minuto, è vecchio e bianco d’un tratto. Cent’anni di sorrisi e di canzoni sulla schiena per questo sorso di vino lento, silenzioso, privato. Sua santità, senza ironia, buona cena.


 
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Cimitero di carta

Pochi capelli su un ovale bucato da occhi simmetrici, indossa un vistoso anello d’argento e un bracciale nero di plastica. Guardo meglio—una croce senza Cristo il primo, un contapassi il seecondo. Mi chiede qualcosa che dal silenzio delle cuffie spente non comprendo. Rispondo con un suono sordo e spaventoso che invece di funzionare lo convince a sedersi di fronte a me. Facendo del tavolo uno stonato tamburo, vi posa entusiasta i suoi grassi tomi, ma senza aver letto una riga intera, lo vedo accasciarsi molle su un lato e chiudere gli occhi tragicamente. Delle migliaia di libri sugli scaffali attorno a noi deve aver scelto quelli sbagliati.
C’è qualcosa di poetico nel morire leggendo, ma ho gli occhi troppo stanchi per metterlo a fuoco. Li chiudo anch’io per un attimo, pensando che in fondo, una libreria, è proprio quello che a volte sembra—un brulicante cimitero di carta.


 
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