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gente e strade

Cavalleria leggera

Riconosco alle mie spalle l’inconfondibile suono degli zoccoli farsi sempre più prossimo. È arrivata la cavalleria leggera, realizzo emozionato nel farmi da parte. Mi volto con lo sguardo di un bambino che scarta un regalo, e con la sua stessa delusione di trovarvi invece che erba qualcosa di utile, ritorno in un istante quello che ero—mezzo adulto e mezzo prete.
Discretamente equino ma tutt’altro che leggero, mi sorpassa un soggetto con le scarpe di cuoio e il culo rotondo. La sua corsa è scomposta e feroce. Si arresta all’incrocio mostrando senno e il desiderio di non morire, poi riprende lo stesso furente galoppo fino a infilare, senza schiantarsi, la porta a vetri di un palazzo. Nell’atrio marmoreo finalmente rallenta, si sistema la cravatta, la camicia nei pantaloni, e coi capelli appiccicati alla fronte presenta il documento che gli permette di entrare in una seconda porta—quella di un ufficio.
Le vite degli altri sembrano sempre buffe caricature della nostra, ma non lo sono mai.


 
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Flora Bambi

Sale alla fermata dopo la mia, non so come. Mi si pianta di fianco grande quanto un animale preistorico glabro, con lo stesso eccitante odore di lurido e selvaggio. Plastico come nessuno alla mia stronza età, mi adatto alla forma della creatura trovando il giusto incastro tra il suo molle addome e i pali gialli del bus.
Riprendo a leggere. Cerco di farlo lentamente perché so che così allestito non potrò girare pagina. Poco oltre, nemmeno a metà strada, le parole finiscono comunque e non mi resta che lasciarle dove stanno.
La dama mora cui faccio ombra è al telefono da ventun minuti con Flora Bambi. Suo figlio cerca di attirare la sua attenzione, invano. Cattura invece la mia. Poi mi vede, sorride, ricambio. Sappiano per un attimo qualcosa in più di tutti gli altri passeggeri e della città. Siamo per un istante quello che la stessa, per sua natura, desidera dimenticare.


 
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Mortimer Street

Io e PJ in un torrido mezzogiorno urbano di asfalto sciolto, fiacca umana ed euforia estiva sottopelle. Lui in pigiama, io con gli occhiali da sole, entriamo in un caffè di Mortimer Street. ‘C’è una bella luce in questo posto, non lo conoscevo,’ dico io attratto dall’audace accostamento commerciale di cosmetici, saponi, tè orientali e caffè. PJ annuisce divino senza guararmi né disunirsi, poi chiede un espresso. Ma quando specifica lungo, dietro il bancone la barista sbigottisce. PJ mi guarda da una fessura, divertito o preoccupato. Io non rispondo, non ho niente da dire, eppure intervengo. ‘Un americano, grazie.’ Il mio ordine sembra donarle la serenità perduta e anche PJ, sempre meno divino e sempre più strizzato dentro il suo assurdo pigiama di jersey, si distende.
Bang! Kunk! Con pugno sorprendentemente forte ed esperto, comincia il rituale smartellamento alla macchina. Finché un nuovo tormento prende forma dietro l’ampia e sottile montatura di Gucci. ‘Caldo?’ Io e PJ ci guardiamo chiedendoci a chi dei due si riferisca. ‘L’americano, caldo?’
La guardo da sveglio, e rassicurato dall’incanto che ciò che è scontato non sempre lo sia, o non per tutti, rispondo l’ovvio che non dovrebbe mai essere. ‘Caldo, per favore.’


 
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Amore che non parli

Hanno capelli bianchi in testa e ottant’anni mal portati sulla schiena. Lui aspetta che lei si sieda, poi si accomoda di fronte, scivolando le gambe sotto il tavolo come il piede in una pantofola. Senza scambiare parola, aprono il menu e cominciano a leggere. Sembrano perplessi, lo sono—è più difficile di quanto pensavano.
Lui alza le sopracciglia, si accarezza con l’anulare l’arcata sinistra senza trovare il coraggio di lasciare la pagina—questo esame non lo passerò mai. Le mani in grembo, lei percepisce il suo sconforto e lo condivide con dignitosa immobilità—non posso aiutarti. E lui lo sa. Come sa anche, lo sanno entrambi nello stesso preciso istante, che è l’ultima volta che scelgono un ristorante greco.
Finalmente arriva il cameriere. Indietro non si torna. Questo, questo e questo, indicano a turno con il decoro ultimo di chi ha accettato che caso e sorte siano lo stesso fatale miraggio.
Un bouzouki riempie il tempo che segue e lo spazio che li separa. Passano minuti silenziosi scanditi da gesti minimi. Una quiete muta che solo il cameriere riuscirà nuovamente a destare.
Il cibo è in tavola. Esitano ancora un poco—dove cominciare, come. Lui si serve inettamente da una portata qualsiasi pasticciandone il contenuto. Le passa il piatto. È un attimo lento, per niente fugace, quello in cui le dita di lei e di lui si trovano a sostenerlo, assieme, nell’aria ferma e chiassosa. Gli sguardi si trovano, per gioco si sfidano, con audacia restano. Le labbra di lui si distendono in un sorriso. Quelle di lei, dolci e sottili senza trucco, gli rispondono.
Amore che non invecchi e non morrai. Amore che non parli, e lo fai più forte del baccano degli ingordi.


 
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Una mela rosa

Una gonna a fiori le accarezza le caviglie e una maglia bianca di cotone le disegna il corpo dalla vita in su. Tre tazze di carta e una mela rosa le stanno tanto salde tra le mani da sembrare che vi sia aggrappata.
La evito per poco con una destrezza memorabile che entrambi presto scorderemo assieme al terrore che per un attimo ci avvicina. La montatura nera le scivola sulla punta del naso mentre bionda e funambola difende i caffè degli ignari colleghi, e la mela.
Siamo i giocolieri delle prime ore, quelli dei numeri che aprono il gran circo. Quelli con il costume più logoro, che dal buio della platea sembra sempre nuovo e candido.


 
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