Pensai fosse uno scherzo quando qualcuno mi fece notare su internet un set di casseruole Le Creuset ispirato a Star Wars. Mi sbagliavo. L’ho visto ieri nella vetrina di un negozio a Muswell Hill. Era uno scherzo serio. Poche ore più tardi, letteralmente, mi trovo sotto il naso in aeroporto una serie limitata di bottiglie di Johnnie Walker (naturalmente da collezione, come la metà dei prodotti da duty free) sul tema di Game of Thrones. È un epidemia. Mi immagino una cena in cui l’ospite mi serve la sua specialità in una pregevole cocotte dal cui coperchio emerge in bassorilievo il testone a pandoro di Darth Vader. Lo immagino a fine pasto, quando sono seduto sulla poltrona davanti al camino a fissare il fuoco per dimenticare, avvicinarmisi gongolando minacciosamente con uno scrigno di radica tra le mani, aprirlo lentamente di proposito così che cigoli come un antico forziere, e mostrarmi al suo interno la ricercata bottiglia soffiata a guisa di drago, di troll sdentato, o di qualche altro personaggio fantastico della serie televisiva—magari sussurrandomi confidenzialmente all’orecchio, la forza sia con te. Cristo vestale, è davvero diventato così nerd il mondo che hai salvato?
Le recensioni più acide vanno solitamente ai film che dividono. L’adattamento cinematografico di Cats firmato Tom Hooper sembra invece essere lo strano caso che unisce e mette d’accordo per una volta tutta la critica.
Poche ore devono essere passate da che centinaia di artisti hanno ricominciato a respirare l’aria pura di Soho, che la loro tanta, troppa, ridicola dedizione è già stata investita dalla più indignata disapprovazione della stampa degli ultimi decenni.
Non so se tanto accanimento abbia ragione d’essere o sia frutto del collettivo delirio, ma avendo visto il trailer e sapendo qualcosa della tormentata produzione, una considerazione generale posso comunque farla.
I tempi sono sufficientemente maturi perché il cinema che ha più soldi e più ne spende lasci perdere per un attimo il computer, alzi il culone da dove sta, e provi a riflettere sul suo ormai abituale, forsennato ricorso agli effetti visivi digitali.
Mi tocca citare John Lasseter—‘The art challenges technology. Technology inspires the art.’ Ma quando la tecnologia va per i cazzi suoi, beh, si salvi chi può.
Il padre di Steve conosceva i gemelli Krays. Era del giro, e del giro era Bear. Chi ha mai saputo chi fosse giura che non era necessario chiedergli perché lo chiamassero così. Un giorno entrò al pub un gonzo più basso, non meno inquartato. Le cose presero un verso che a Bear non piacque. Con una sola mano lo afferrò per la nuca e gli ruppe il naso sul bancone. Con lo stesso braccio, senza mollare la presa, lo trascinò di peso fino all’uscita e lo scaraventò in mezzo alla strada. Nessuno protestò, nessuno vide niente di più di quello che era giusto aver visto. Mezzo secolo fa nell’East End, quando gli sgherri indossavano completi eleganti e usavano le mani meglio dei coltelli.
Preso da chissà quale sentimento goliardico, accettai l’invito di alcuni sbandati a vedere 300 di Zack Snyder al cinema. Era un inizio di primavera di una decina di anni fa, quando il film venne finalmente a soddisfare la curiosità di chi dallo scantinato degli effetti speciali ne sentiva parlare da oltre un anno.
Mosso da oscure e inconsapevoli rivalse coniugali—più merda io di quanto avrei scoperto essere il film—convinsi la mia affezionata complice ad accompagnarmi. Le promisi soldi e gioia eterna.
Seduti una di fianco all’altro genuinamente liberi da ogni pregiudizio, eravamo determinati a fare gli spettatori seri. Quelli che seguono la proiezione con gli occhi sbarrati e non si muovono nemmeno per cercare l’ignoto nelle narici. Quelli che comprano i bidoni di popcorn e li fanno cadere tra i piedi prima ancora che si abbassino le luci dicendo sottovoce cristo.
Seguimmo la prima parte del film ignorando il naturale germogliare delle prime inevitabili perplessità, ma nella penombra bluastra della scena di sesso, sul raglio asmatico dell’estro spartano, non riuscimmo a trattenerci e scoppiammo all’unisono nella più cafona crisi di riso.
Le scene di sesso sono quasi sempre un disastro. Molti autori le evitano, altri vi inciampano rovinosamente. Pochi, a mia memoria, quelli che hanno saputo affrontarle con disinvoltura. Ma questo lato maldestro del cinema nasconde una confessione. Nel tentativo di dire l’opposto, l’uomo ammette di pensare che il sesso—così come lo si fa, così come ci viene—non è bello da vedere. Metà ingenuo, metà arrogante, prova quindi a reinventarlo con superflua e sconveniente creatività senza venire a capo di dove infilare la macchina da presa, né come porsi in quanto narratore.
Ci piace raccontarci adulti e fichi, ma la realtà è che a letto, che si dorma, si legga o si faccia l’amore, si è tutti come il dottore di Volonté nell’Indagine di Petri, bambini. E il cinema, la più immatura e puerile delle arti, il posto dove più che altrove giochiamo a fare i grandi, ce lo ricorda puntualmente, con involontaria, impietosa sfacciataggine.
La palestra è una specie di grande meridiana umana che non ha bisogno del sole per funzionare. Anche per questo sta sottoterra.
Di prima mattina ci sono i salutisti, soggetti amichevoli e innocui dalla risata rara e maldestra. Spesso ingobbiti dalla fretta, hanno un corpo asciutto, pressoché glabro. Si dedicano con rigore alle poche attività di fondo che uno scantinato permetta di fare. Vogare e correre. Qualcuno, qualche volta, scazzotta senza religione il vecchio e masticato sacco da pugilato, ma solo a fine seduta, sull’umida via degli spogliatoi.
In pausa pranzo ci sono i fricchettoni, quelli che vanno in palestra per caso, per dimagrire, per lavarsi la coscienza, per vanto o per voto. Sono quelli che sudano di più. Non sanno mai cosa fare, ma lo fanno con ostinato isterismo, gli occhi sgranati, e la stessa velocità con cui le cicale frizionano le ascelle. Bevono liquami inauditi e costosi, dolciastri o salati, al gusto di vaniglia o di banana o di cioccolato belga. Affranti, sull’orlo del collasso nervoso, investigano spesso sulle abitudini alimentari dei meno bolsi, che in questa fascia oraria diventano dei di un culto oscuro.
Ci sono poi quelli della sera, i superuomini rocciosi che ascoltano la musica con le cuffie mentre strizzati nella cintura di cuoio sollevano quintali e catene di navi. Hanno le arterie sfacciatamente gravide e i tendini del collo tesi come stralli d’acciaio. Hanno il volto scavato e un’espressione ferma, indistinguibilmente concentrata o cagnesca. Immutabile nel tempo. Non sono aggressivi, ma comunicano poco e lo fanno con la bocca serrata, facendo pulsare con vizio le vene ritorte delle tempie.
I lenti e informali orari intermedi, infine, sono dei conducenti di metropolitana. Quelli con l’approccio meno ossessivo, al limite dell’inumano. Sono i più rilassati e per questo invidiati. Perché la gente non sa quanto sia difficile il lavoro che fanno, quanta tensione ci sia a ogni fermata, tutte le volte che il treno si lancia in stazione passando a pochi centimetri dal muso della gente, dalla carne frenetica, dalla carica del branco. Sono quelli che sopra e sotto la terra, in palestra o in galleria, sanno fingere il senno col distacco del mestiere. E si fanno della follia di tutti gli altri, testimoni ignoti, osservatori neutrali in transito.