—ac
LaszloMoholy-Nagy_PP.jpg

gente e strade

Moscow–London

Avendo trovato spazio proprio di fronte a me, sono saliti l’uomo più grande del mondo e una bimba minuta dalla carnagione lattea, i biondi boccoli e un velo di ombretto turchese sulle palpebre. Mano nella mano, non ci metto molto a capire che sono un padre e una figlia. Lei non ha più di cinque o sei anni. In punta di piedi non gli arriva alle ginocchia. Già ingobbito nell’angusto tubo di ferro che per lui è il vagone, la ciclopica creatura si china gentilmente per dirle qualcosa, sorriderle da vicino, e accarezzarle i pomelli appena tinti dall’inverno della terra ferma. Poi due posti si liberano. Incantato li seguo mentre cortesemente chiedono se possano occuparli. Nessuno protesta. Lui si siede per primo manovrandosi con relativa grazia in un sedile ridicolmente piccolo per il suo giurassico bacino. La bambina gli si siede accanto, rannicchiandosi nel suo immenso petto. Lui l’abbraccia, ma non con forza o la spezzerebbe senza fatica. Le sue mani sono una benna con cui potrebbe fare a sé l’intera fila di passeggeri, ma quel cantuccio caldo e comodo è solo per lei. Sfiorandole dolcemente il nasino ancora freddo con l’indice, le sussurra le ultime cirilliche rime. Non è vero che il russo lo parlano solo gli adulti. Non è vero che lo capiscono solo i bambini. E illuminatasi di una immensità in cui minuscolo mi perdo, s’aggiusta infine come fosse per sempre affondando ancora un poco nel luogo più sicuro che ci sia.


 
—ac
Russell Square

Davanti alla stazione di Russell Square sta un capannello di uomini e donne intorno ai settanta. Una formazione compatta di mogli e mariti dal corpo tornito, bassotto e fagotto. In piedi davanti a una cabina telefonica, vi guardano dentro con occhietti vispi e intrigati scambiando in una lingua che non conosco quelle che paiono note di assenso o preferenza. Il signore in prima fila, col fare autoritario di un intenditore, agita un tozzo bastone di legno nella direzione della cornetta, o di ciò che da dove arrivo non posso ancora vedere. Mi sto perdendo uno spettacolo.
Mentre gesti e parole si incalzano appassionati, mi chiedo con crescente curiosità quale meraviglia possano mai custodire le cabine telefoniche di Londra di cui in tanti anni non mi sia mai accorto.
Nel torpore emotivo di una mattina più fredda di altre, proseguo con simulata indifferenza, avvicinandomi senza affrettare il passo alla strana combriccola. Poi finalmente supero la cabina e mi volto quanto basta da infilare un minimo scorcio sulla ragione di tanto trasporto. Disposte una di fianco all’altra come in un album di famiglia, sono una serie di immagini di donnine nude splendidamente lucide e inequivocabilmente aperte, accompagnate da numeri telefonici. Escludendo la follia di penetrare sgomitando nella testuggine per verificare la natura degli annunci, mi accontento della più ovvia ipotesi, ovvero che siano vecchie pubblicità di linee erotiche. Ma quando rallento per osservare la scena da vicino, il capo si accorge del mio indugiare, arresta il bastone in una posizione incompiuta, e con espressione giuliva mi dice qualcosa di cui altro non colgo che gli amichevoli propositi. Senza smettere di camminare ricambio ammiccando, divertito quanto lui da questa buffa intesa oltre la lingua, la comprensione, oltre persino il contenuto. Due beduini che si incrociano nella steppa e condividono un dimenticabile attimo di leggerezza, indispensabile a nessuno tranne che a loro.


 
—ac
La grande bellezza

I raggi infuocati delle nove e mezza di mattina tagliano il vetro traslucido della tettoia riducendo la fauna a un incalzante inseguirsi di sagome scure. Davanti all’ingresso della stazione di Finsbury Park c’è il solito carnevale teso di chi sembra stia per cagarsi nelle brache o di chi nelle braghe già sta cacando mentre telefona, scrive, legge, oppure sorchia una delle infinte varianti del caffè—sempre e comunque incandescente. Musi addormentati, preoccupati, indifferenti, rassegnati. Pochi sono quelli davvero imperscrutabili.
Nel mezzo di questo brulicante mercato della carne, noto senza fatica una ragazza e un ragazzo. A differenza di tutti sono fermi. Rischiarati da un inaspettato fare disteso più ancora che dal sole, dialogano e si scambiano sorrisi da parte a parte del collo di bottiglia che versa nella stazione. La loro serenità pare decisamente fuori luogo, francamente sfacciata, eppure sincera. La gente li sfiora, loro impassibili. Gli passano davanti, in mezzo, non li toccano, non li vedono. Ma io si, immodestamente solo e sufficientemente discreto da non turbare l’incanto. Sono sordomuti, finalmente mi accorgo. Che bellezza, penso ricordando casualmente una battuta scritta per il ruolo omesso di Giulio Borgi. Che grande bellezza.


 
—ac
Diversamente lubrificato

Fuori dalla stazione di Finsbury Park sta un cristo identico a me. Ha forse un aspetto più sporco e trasandato, ma di questo non garantisco d’essere un giudice imparziale. Posso però contare che ha meno denti, meno capelli e più barba. Il volto lubrificato dal grasso del motore gli da l’espressione scura di un meccanico che si è appena scivolato fuori da sotto un autocarro. Ha una giacca dello stesso colore della mia, che lui porta scalena e sbracatamente aperta nonostante l’acuto artico di questi ultimi giorni. Disciplinato e inflessibile, spartisce indifeso l’isterico esodo mattutino, ma è da un pulpito che solo io sembro notare che con modesto sentimento e una smorfia tesa da primate stitico annuncia, ‘Siete tutti importanti, perché avete una vita.’ La nota mi paralizza nello spazio e nel tempo come all’apice di un balzo. Lo scarno messia dalla voce distrutta dice in vero—cosa intende esattamente? Vorrei fermarmi e approfondire, chiergli se ha un nome, la sua storia e di chi è figlio, ma gli passo davanti a un’andatura troppo lanciata per riuscire a fermarmi senza causare un incidente orribile e un sanguinario incastro di corpi—di vite importanti. L’orario di punta della civiltà urbana possiede un inalterabile cinismo intrinseco che può sia sulla mia volontà che sulle sue parole. Così scivolo via, diversamente lubrificato, portandomi dietro quella frase. Siamo tutti importanti, perché abbiamo una vita—non ho mai creduto a domineddio che me l’ha mandato a dire per mezzo secolo, ma a te voglio dare fiducia, sfortunato profeta. La prossima volta non scapperò via. La prossima volta, naturalmente.


 
—ac
Royal Free

Ci vado sempre con non meno di tre libri nuovi oltre a quello che sto leggendo, quattro o cinque monografie cinematografiche, interviste ad autori e artisti vari, una quantità inimmaginabile e in altro contesto scoraggiante di articoli accumulati nei secoli, qualche documentario che ho già deciso non guarderò perché la mia febbre da non-fiction si manifesta tanto virulenta quanto rara non più che decennalmente, e naturalmente il materiale per scrivere—quest’ultimo con l’aspettativa, anzi la certezza, di finire almeno una delle sceneggiature a cui sto lavorando, nonché una bozza di un libro i contenuti del quale sono ancora un assoluto mistero. In attesa del mio turno, non mancherà il tempo di pensare anche a quello. Invece no, nemmeno una frazione di quanto sopra. Arrivo. Do atto della mia presenza. Un’infermiera mi dice, si segga lì, indicando una sedia ben precisa in una fila di quaranta vuote, indovinando con inquietante stregoneria quella che avrei scelto io. E proprio mentre accompagno al gesto della seduta quel ridicolo verso animale che libera il guerriero estraendosi la spada del nemico dalla pancia, qualcosa di ben più sadico mi trafigge—il suono funesto del mio mal pronunciato cognome. Così, con sforzo ancora maggiore, quando baciando con le natiche la seduta stavo già sfogliando mentalmente le alternative del mio portentoso intrattenimento, mi rialzo. L’efficienza di un ospedale è lodevole fino a un certo punto, oltre il quale diventa decisamente fastidiosa.


 
—ac