Durante una festa, Leslie presenta a Paco alcuni amici. Larry è un poeta, ma lavora per un’agenzia pubblicitaria. Sally è un’attrice, ma lavora per un fotografo. Finché Paco interviene, presentandosi a sua volta—sono un poliziotto, lavoro per il dipartimento di polizia. È una scena di Serpico a far riaffiorare un ricordo nemmeno remoto, e con esso una riflessione non autorizzata sull’idea di ruolo.
Fuori era Soho, ed era maggio, ma dentro era inverno. L’ufficio era buio, freddo, aveva l’odore di marmo e legno della sala d’aspetto di una stazione ferroviaria di paese. Quelle che non esistono più. Alla fine di un incontro riguardo a un lavoro che poi non feci, saltato in piedi più per la necessità di muovermi e scaldarmi che il desiderio di andarmene, venni ricacciato a sedere da una domanda inaspettata, la più inutile e intelligente che mi sia stata posta negli ultimi anni—tu, che cosa ti consideri?
Non siamo cento mila, nessuno, siamo uno. Né sono io allo stesso tempo artista e pagliaccio, sognatore in erba, sabbia oppure sterco. Perché tra queste facce, quelle ovvie che non scrivo e tante ancora che ho scordato o non conosco, solo una mi appartiene e solo una ci appartiene—una soltanto, forse da sempre, fino allo stremo.
‘Personaggi noiosi di un’epoca triste,’ fu la risoluta conclusione di un articolo del Tribune1 con cui Heywood Broun, nel 1920, recensiva The Age of Innocence. Il mese successivo Broun tornava sul luogo del delitto con uno spirito diverso. ‘Qualche settimana fa avevo stupidamente definito il libro di Edith Wharton tedioso, anche se ben scritto. Mi rendo conto solo ora, essendo andato oltre, della sua acuta ironia, del suo sottile umorismo.’ Non ho mai letto The Age of Innocence. Del suo tedio o del suo acume conosco solo quanto sia rimasto nell’adattamento cinematografico di Scorsese, ma ciò che dell’aneddoto mi ha fatto alzare le sopracciglia è altro—la rettifica, il riconoscimento, l’ironia autodeprecativa. Quanti giornalisti contemporanei hanno il tempo, il modo, la volontà, ma soprattutto le palle di approfondire i propri commenti ed eventualmente cambiare idea? Quanti sopravvivono al proprio orgoglio e alla propria vanità, ma anche all’ansia da onniscienza, presenza e contenuto della parte commercialmente trainante del mercato editoriale? La critica non vive di frettolosi epitaffi, ma della sua caducità, della necessità di maturare, mutare, ripensarsi e dialogare—e come noi oggi, in un secolo che sembra più che mai scivolarci sotto il culo, del tempo per sbagliare.
1. ‘Heywood Broun, in the Tribune, was unmoved: What dull folk, what a dreary time! he wrote. [...] Late in November, Broun had second thoughts: Some weeks ago we made the stupid comment that Edith Wharton’s The Age of Innocence was dull, though finely done. Now we have gone further and are beginning to grasp the sly humor of the book.’ (Nicholson Baker, First blush. Some books from the year 1920, TLS 20th March 2020).
In un memorabile intervento di fine secolo, Susan Sontag1 denunciava il declino del cinema, la rassegnata disillusione di chi amandolo ne aveva permesso il fiorire, e ne auspicava una prossima rinascita per mano e cuore di una nuova, indispensabile generazione di appassionati. Una riflessione piena di rabbia, persino toccante, che Michael Koresky2 riprendeva recentemente a distanza di vent’anni, mosso da un’amarezza diversa, chiamando piuttosto all’unico modo l’uomo conosca per ribaltare le sorti avverse—la resistenza. Comunque si legga la storia del cinema e per quanto acume, profondità e lungimiranza guidino negli anni le penne degli osservatori migliori, le loro giuste grida, una considerazione generale resta. Non sembra esista una forma d’arte tanto dubbiosa di essere tale, tanto incerta sul suo ruolo, sulla la sua stessa natura, e così consistentemente convinta della precarietà della propria esistenza quanto il cinema—che nonostante tutto vive. Il viale del tramonto sul quale permanentemente ama pensare di essere, è una romantica finzione, una nostalgica indulgenza. Nelle parole di E. M. Forster, la storia avanza, ma l’arte è immobile.
1. Susan Sontag, The Decay of Cinema (The New York Times Magazine, February 25, 1996).
2. Michael Koresky, Not Buying It (Film Comment, February 25, 1996).
Perché sia chiaro, sciare significa dimenticarsi dove si è nascosto abbigliamento e attrezzatura alla fine della stagione precedente, ritrovare tutto nel luogo più ovvio tranne le calze, recuperarne finalmente un paio mai visto prima, giurare sui propri cari di non esserne il padrone, ma usarle comunque per disperazione, perché nessuno sembra reclamarle, perché erano davvero le nostre anche se non lo ammetteremo mai. Significa vestirsi come un astronauta che va in disco-dance e muoversi con la stessa grazia. Mettere ganasce di plastica ai piedi, chiamarle scarponi solo perché sono più grandi delle scarpe normali e hanno una forma che le ricorda. Rischiare di rompersi le costole per allacciarli, riuscirci solo dopo aver emesso terribili versi pre-umani e aver coinvolto Dio. Camminare quindi come il mostro di ferro con gli sci in spalla pensandosi galli finché gli stessi si separano trasformandosi in un’enorme forbice letale, e le bacchette cadono, e le lenti si appannano, e ci si trova in qualche coda circondati da creature similmente aliene che odorano di creme solari, materiali sintetici, e ascella. Eppure, non per questo, non per essere secondo solo al windsurf in quanto a scomodità di preparazione, lo sci è uno sport più nobile e singolare di quanto abbia mai avuto coscienza perché è privo di qualsiasi sentimento competitivo. Chi scia senza essere sciatore, senza fare gare, scia per stare in montagna, per le patate e il formaggio, per la grappa, la neve e gli aghi di pino. Scia per mettersi in mostra, perché ci vanno gli altri o per il bizzarro piacere di scendere, scendere con il tempo che ci vuole a farlo, compiere un gesto pulito e sentire il corpo funzionare. In qualsiasi caso, è una delle discipline fisiche in cui il dilettante più meriti l’etimologia dell’appellativo amateur.
Non vedo quale scandalo possa mai rappresentare la recente notizia che Warner abbia adottato l’approccio di cui Netflix fa orgoglioso uso dalla nascita—ovvero affidarsi a un sistema di intelligenza artificiale che elabora le preferenze degli utenti per plasmare convenientemente forma e contenuti delle nuove produzioni1. È sempre stata un’ossessione americana quella delle statistiche. È della stessa provenienza l’aver associato i termini studio e industria, echeggianti metodo e ripetizione rispettivamente, al luogo che da questa parte venne definito giusto un secolo fa settima arte.
A dispetto dell’immodesto, prematuro appellativo, un’intelligenza artificiale non è altro che il naturale passo avanti di una filosofia produttiva condannata dal peso della sua stessa struttura a privilegiare gli aspetti commerciali su quelli artistici.
È però vero che il sapore distopico dell’intrattenimento contemporaneo si faccia con questa nuova aberrazione ancora più denso e amarostico. Non è certo una flatulenza paternalistica ricordare che l’intuizione è irrazionale, la sorpresa un fattore non numerico, la risposta del pubblico imprevedibile—e che l’intelligenza di una macchina prevale solo quando quella umana viene meno. Perché gli algoritmi prevedono la vita nella sola misura in cui essa è vissuta prevedibilmente.
1.Warner Bros. Signs Deal for AI-Driven Film Management System, Tatiana Siegel, The Hollywood Reporter, 8th January 2020.