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Ayurveda

Il mio epatologo greco al Royal Free di Hampstead mi chiese una volta quali sostanze assumessi abitualmente oltre a quelle considerate convenzionali. Non potendo stupirlo con meglio—non essendomi chiaro cosa fosse da considerare convenzionale, ma sospettandolo—mi vennero in mente gli imbrogli medievali dai nomi biblici che mio cugino mi rifila periodicamente.
Triphala e brahmi, che mi aspettavo avrebbero provocato una reazione maiuscola, lo lasciarono indifferente, ma quando nominai wheatgrass, spirulina e chlorella—ovvero la trinità ayurvedica del benessere incondizionato, unica vera via per una vita eterna e oltraggiosamente prospera—lessi nell’assottigliarsi muto delle sue labbra un’esclamazione indicibile di greco orrore. Evidentemente sapeva di cosa stavo parlando. Evidentemente anche lui aveva un cugino calvo e ayurvedico.
Wheatgrass (erba di grano) è una polvere che proviene da un’erbetta molto simile a quella dei prati finti. Ha l’aspetto e l’odore del matcha, secondo molti quello della piscia. Nell’acqua fresca ha un gusto delicato, insperabilmente dolciastro. Lo bevo ogni tanto con latte di avena. In nessun caso possiede effetti lassativi. Spirulina e chlorella sono invece due alghe. Le compro in polvere, come se ne nutrono balene e semidei. Una polvere pesante, verde scuro, quasi nera e finissima. Rispetto all’erba di grano contengono più proteine, vitamine, antiossidanti—qualsiasi cosa siano—e costano di più, che è il vero aspetto rassicurante. Per quanto vengano dal mare, hanno un sapore simile ai semi di zucca, né salmastro, né saracco, né putre, comunque intenso oltre il decente e diversamente disgustoso. Fanno oggettivamente schifo, ma per una compulsione non meglio riconducibile che a una forma di mitridatismo metaforico, sono la prima cosa che bevo la mattina.
Non so quanto prodigiose siano davvero erba e alghe, ma è evidente che la loro inspiegabile indispensabilità trascenda quel sapere, e che in fondo al segreto della loro infestante presenza stia la salvezza dei loro devoti martiri.

 
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Ombrelli

Per un breve eccitante periodo, ebbi un account di Facebook. Non era già più una novità per nessuno, ma lo era per me. I miei tempi di reazione alla tecnologia sono meno che pachidermici.
Di quella moderna esperienza sociale ho poche memorie, nessuna delle quali vale la frazione di un aneddoto. Ricordo l’insolente pubblicazione di foto che nel nome della mia scarsa fotogenicità e oltraggioso narcisismo non avrei mai autorizzato. Ricordo la filosofia spiccia e scialba che rimbalzava da pagina a pagina nella forma di stronzate e buonismi anemici spacciando banalità di ogni sorta per indimenticabili saggezze. Ricordo tra queste l’immagine di un’anziana coppia romanticamente al riparo sotto lo stesso ombrello, sopra un testo che grossomodo recitava—il segreto della longevità del nostro matrimonio sta nel fatto che apparteniamo a una generazione che invece di buttare quello che non va, la ripara.
Cancellai l’account di Facebook all’istante, per sempre, ma quel pensiero giusto e mieloso e paternalisticamente salomonico, non si perse senza lasciare traccia. La riflessione che a distanza di anni riaffiorando desta, non ha nulla a che vedere con il divorzio—che non solo andrebbe incoraggiato, ma reso obbligatorio—ma riguarda gli ombrelli, quelli pieghevoli soprattutto.
L’oggetto che dovrebbe rappresentare lo stato dell’arte della meccanica di una civiltà è invece un arnese convincente solo all’acquisto, che non regge più di qualche modesto rovescio, e che aggiustare è impossibile intrinsecamente. Conosciamo tutti il loro triste destino. Le stecche si piegano, l’asta si spezza, la calotta si ribalta al primo alito di vento, e il velcro o il bottone a pressione che la tengono chiusa sono un’inutile presenza simbolica. Se sono invece di quelli che si aprono automaticamente con un pulsante, ci si aspetti che la molla possegga un’esuberanza largamente sproporzionata. La propulsione in sé, è in effetti l’unica parte di questa ingegnerizzata specie di ombrelli che non perde mai vigore. Che trasforma un oggetto innocuo in un ribelle rivoluzionario anarchico mosso da puro spirito eversivo invece che da un’ideologia. Che costringe a difendersi da ciò che, anche se da una cosa di poca offesa come la pioggia, è disegnato per proteggere. Che fa sembrare sfigato il più carismatico asceta, quando dimenandosi maldestramente senza aiuto nell’intemperie, cercasse di domare un ombrello che non si chiude, che non si apre, che si capovolge.
L’unico tipo che resiste al tempo e alla propria fallosa natura, è quello che viene perso sui mezzi pubblici. In ogni città c’è una rete torbida e clandestina di ombrelli passati di mano in mano perché dimenticati e trovati da altri sulla sedia di un bus, nella cappelliera di un treno, su una panchina in stazione. Sono anche i più brutti e inappropriati.
In questo periodo ne sto usando uno volgarmente floreale che sembra una tappezzeria provenzale nelle tinte del vomito. So che non si romperà mai. So che verrò seppellito in una fossa comune come le menti geniali di ogni epoca, accanto a un ombrello che aperto sembra la tazza di una turca in quel terribile limbo tra una defecata dissenterica e lo sciacquone divino. Lo ritroveranno intatto quando il primo pazzo verrà a dissotterrarmi, strapparmi il cuore e portarlo al bar del paese in un sacchetto di plastica per vincere una scommessa lanciata per scherzo da chi non sa che gli insani sono i soli a parlare sempre seriamente. Ma non verrò perciò ricordato come una persona senza gusto—perché chi come me non esiste su Facebook non è mai esistito.

 
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Henry Walton Jones

Parlando di quella parte della mia esistenza che posso affrontare in società senza destare lo scandalo dei beghini e l’allarme degli ipertesi, mi trovo spesso a dover giustificare senza mai sapere come la ragione per cui non ho alcuna familiarità con molte indispensabili saghe degli anni Ottanta come Star Wars, Alien e Porky’s, e perché seguissi Tre cuori in affitto, i Jeffersons e Mary Tyler Moore invece di Star Trek e i Visitors. Se c’è un pilastro della cultura pop di quell’epoca che però non mi è mancato, è Indiana Jones. Io e mio fratello vedemmo Temple of Doom decine di volte. Cercammo di strapparci il cuore a vicenda digrignando i denti, sgranando gli occhi e invocando in sanscrito la dea Kali. Non ci riuscimmo nemmeno una volta.
Indiana Jones non ha semplicemente il cappello, la frusta da domatore di leoni e la camicia sudata—è asimmetrico. Un eroe sciatto e scaleno che non si stupisce di nulla, non soffre di attacchi di panico, ruba cose belle per soldi o perché, nelle sue parole, dovrebbero stare in un museo, è un riferimento irresistibile, non solo nostalgico, anche se viene da un immaginario ormai antiquato, tanto scarso di proteine e silicone. Insomma, Henry Walton Jones Junior è l’uomo o la donna che la filosofia tenta da millenni di aiutarci a essere.

 
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Internet

L’educazione nella mia epoca è quella che ha accusato la precedente di eccessivo nozionismo e pedanteria—che ha fatto leggere gli estratti nelle antologie invece dei libri, e le poesie ad alta voce in classe piuttosto che farle imparare a memoria. È la stessa epoca di chi non ricorda i numeri di telefono, i compleanni dei santi o come preparare un martini. Non ne ha bisogno, perché c’è sempre chi lo sa al posto suo.
Secondo Socrate, scrivere uccide la memoria. Per lo stesso motivo, internet fa oggi del ricordare un esercizio ancora più inutile e obsoleto. L’immediata onniscienza che esso fornisce non solo seduce compromettendo la qualità e la consistenza dell’apprendimento, ma incanta al punto da confondere l’informazione con la conoscenza. Accessibilità e sovrabbondanza non possono che condurre a un sapere illusorio e superficiale. Quello che resta di un contatto fugace, soprattutto con ciò che si sa essere reperibile in qualsiasi momento, vale quanto un quotidiano sfogliato sul cesso o una serie televisiva consumata in poche sere. Conoscere richiede pazienza e tempi dettati dalla natura dell’uomo, non dalla tecnologia che gli è messa a disposizione.
Internet è un banchetto gratuito di ghiottezze inedibili se trangugiate senza masticare. Nella maggior parte dei casi, nota Jared Horvath1, è giusto un’esperienza momentanea che dell’imparare procura solo l’impressione.
L’uomo userà sempre i mezzi che gli saranno messi a disposizione, quelli che riterrà più efficaci, pratici e remunerativi. La nostra intelligenza non è pigra, non lo è mai stata, è semplicemente efficiente, e internet un invito in più a esserlo—un invito biblico non privo di insidie.

1. Jared Cooney Horvath, as quoted in How Do I Stop Forgetting What I Learned So Quickly? by William Cho, 29th April 2018.

 
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Courmayeur

Quello che mi è sempre piaciuto di Courmayeur—lo dico senza ironia, anzi con genuina saudade—sono i turisti che si aspettano bastino i soldi perché un paese di montagna acquisti la mentalità e il ritmo della città da cui provengono. E quindi litigano. Quelli che non si arrabbiano ma si stizziscono, che sono nervosi in coda, infervorati sulle piste, aggressivi e rumorosi in macchina. Sono le anime tese perennemente incolonnate in tangenziale che negli ultimi inverni sembrano essersi progressivamente estinte. Che infelice nonsenso la montagna senza la gente che si azzuffa, le macchine accese in divieto di sosta, i cani alti tre metri con il sigaro da un lato, la bava colante dall’altra, e quelli alti venti centimetri con la pelliccia di zibellino e gli occhi in fuori da pii estremisti. Resta solo la neve, bianca e profumata di aria fredda e larici, comunque artificiale come tutto.

 
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